Il primo atto della segreteria Cgil guidata da Bruno Trentin è la conferenza programmatica di Chianciano nell’aprile successivo. Trentin rompe gli indugi e illustra il suo progetto, avanzando l’ipotesi di una nuova Cgil, sindacato dei diritti, della solidarietà e del programma e avviando un processo di autoriforma che proseguirà con la Conferenza di organizzazione di Firenze del novembre 1989 e il Congresso di Rimini del 1991 per concludersi nel giugno 1994 a Chianciano con la conferenza programmatica della Confederazione. 

Sul piano organizzativo, la novità più rilevante è lo scioglimento delle componenti storiche collegate ai partiti di riferimento della sinistra italiana. In questo modo, la dinamica tra maggioranza e opposizione si sarebbe sviluppata all’interno del sindacato non tanto sulla base della vicinanza a un partito o a una coalizione di governo, quanto in virtù della condivisione o meno di un programma di governo dell’organizzazione. Sul piano rivendicativo la Cgil accetta di contribuire alla riforma della contrattazione collettiva e di discutere con gli interlocutori pubblici e privati l’introduzione della politica dei redditi attraverso il sistema della concertazione, individuata come il principale strumento per riportare sotto controllo l’esplosione del debito nazionale; entrambi questi temi saranno introdotti con lo storico accordo siglato nel luglio 1993 con il governo Ciampi, evento rivelatosi presto decisivo per il risanamento dei conti pubblici e per l’ingresso dell’Italia nell’Unione europea.

“A molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio - dirà di lui Bruno Ugolini - Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie ed a volte rischiava di buscare i bulloni in testa”. “Quando parla uno come Trentin - scriveva Giorgio Bocca nel 1975 su Il Giorno - non ha senso chiedersi se appartenga alla destra o alla sinistra del Partito comunista, perché quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni, dalle pigrizie”.

“Un rinnovamento dei gruppi dirigenti della Cgil e del loro metodo di lavoro - affermava il segretario nell’aprile 1989 - è possibile e necessario: io avverto questo problema come il compito principale che mi incombe (…) Ma non aspettatevi da me un rinnovamento degli uomini separato da un rinnovamento delle politiche, del programma, e della strategia della nostra organizzazione. E non aspettatevi da me il ruolo di un mediatore fra fazioni. Sono e rimarrò, credo, fino alla mia morte, uno dei pochi o dei molti illusi che ritengono che il rinnovamento dei gruppi dirigenti cammina con la coerenza delle idee, con l’assunzione delle responsabilità, con il coraggio della proposta e del progetto. E ciò, proprio perché sono convinto che presto o tardi, con la forza delle idee e delle proposte anche le forze culturalmente minoritarie di oggi, se dimostrano coerenza e rigore, possono diventare maggioranza domani ed essere davvero il futuro della nostra organizzazione (…). C’è bisogno, specialmente oggi, di una deontologia del sindacato che dia credibilità e certezze ai lavoratori e che lanci ai giovani che vogliono cimentarsi con questa prova il messaggio che lavorare per la Cgil e nella Cgil non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”.

“Quella Cgil che conosco bene - affermerà nuovamente nel giugno 1994 a Chianciano - e di cui lascio la direzione con un sentimento di infinita riconoscenza (…) un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori”.

“Temo che questa volta - saluterà Trentin - la darò vinta a Valeria Fedeli che ha polemizzato con me per la faccia di bronzo che ero capace di mantenere, ma sarei un ipocrita se negassi che provo in questo momento una profonda emozione, un senso di dolore anche, come accade ogni volta che si interrompe un modo di operare ed anche un tipo di vita, mentre si affronta con qualche ansia un futuro che deve essere ancora disegnato (…) Credo di poter dire, se me lo permettete, che provo in questo momento, come militante della Cgil, un sentimento confuso di riconoscenza ma anche di fierezza: di riconoscenza per tutto quello che mi hanno dato questa organizzazione, le persone che ho potuto conoscere, scoprire, stimare, apprendendo molto da loro; riconoscenza anche per le prove dure che, come molti di voi, ho dovuto affrontare, per gli insegnamenti che ne ho ricevuto e perché mai esse sono state vissute in totale solitudine. Anche in chi dissentiva radicalmente ho potuto sempre scoprire, cogliere rispetto ed affetto di cui li ringrazio (…) Senza averli conosciuti la mia vita sarebbe stata un’altra”.

“Lascio la direzione della Cgil non per andare a fare l’eremita - dirà - né per lasciare l’organizzazione a cuocere nel suo brodo. Io in quel brodo ci voglio stare, nella collocazione che la Cgil mi vorrà dare, al di fuori del gruppo dirigente, senza pasticci, senza mentori, né tutori”. Dopo le dimissioni Trentin rimane negli organismi confederali come responsabile dell’ufficio di programma, ma soprattutto ritorna a essere un "ricercatore socio economico", come diceva con un certo vezzo. 

Gli anni dall’uscita della Cgil alla morte saranno per lui anni di grande elaborazione politica e culturale, culminata in quella che è la sua opera più impegnata dal punto di vista teorico La città del lavoro, di cui i diari di recentissima pubblicazione testimoniano le fasi sofferte della  stesura. 

“I diari - scrive Andrea Ranieri - ci rivelano un uomo tormentato e qualche volta depresso. Che si interrogava continuamente sul senso del proprio pensare ed agire. Che soffriva la vischiosità della burocrazia sindacale e politica a mettersi davvero in discussione. Che soffriva persino quando le sue proposte venivano accolte nelle sedi sindacali e politiche all’unanimità, perché anche quello era spesso adeguamento alla volontà del capo e del dirigente autorevole, ed il modo per non fare davvero i conti con i cambiamenti nel proprio agire che quelle proposte implicavano. Nei diari Trentin annota e commenta le proprie letture ed esplicita i riferimenti culturali che sono alla base della stesura del suo libro più ambizioso e compiuto: La città del lavoro. Per Bruno la storia è un campo aperto di possibilità. Solo così lo studio della storia apre nuove possibilità anche al presente. Non era inevitabile che il leninismo prevalesse sulle idee di Rosa Luxemburg, né che i tentativi teorici e pratici di tenere insieme uguaglianza e libertà, lotta di classe e autodeterminazione, fossero progressivamente messi in ombra e dimenticati dalla tradizione politica della sinistra ufficiale. Gli “eretici” Karl Korsch, Otto Bauer, Karl Polanyi parlano ancora al nostro presente. L’ortodossia dei “vincitori” sia nella seconda che nella terza Internazionale, il primato della conquista del potere statale a cui si poteva sacrificare ogni altra istanza, affidando ad un dopo imprecisato la liberazione del lavoro, è alla base del declino e dell’eclisse della sinistra”.