Poco più di un mese dall’insediamento del nuovo governo. Tempi brevi ma ampiamente sufficienti per verificare cosa significhi la destra al governo. Il primo atto è stato contro la possibilità di manifestare, il cosiddetto decreto anti-rave che in realtà nelle intenzioni riguardava molto altro; poi i migranti con l’ostacolo alle Ong e la riproposizione di atteggiamenti disumani e razzisti, ventilando il ritorno ai decreti sicurezza; le proposte di modifica costituzionale con autonomia differenziata e presidenzialismo.

Si sono per ora quasi sempre dovuti fermare, di fronte alle proteste in Italia e dell’Europa, ma la direzione di marcia è univoca e pericolosa. Adesso è stata presentata una manovra economica, non solo sbagliata nel merito e nel metodo ma che viene utilizzata per inviare segnali politici. Parafrasando una frase in uso nel governo è chiaro chi favoriranno le scelte fatte: flat tax (autonomi); precarietà (lavoro dipendente); non disturbare chi produce (deregolazione per le imprese); welfare (sempre meno universale); cassa sui poveri (rivalutazione pensioni) al posto della lotta all’evasione; l’irrilevanza dei temi sul Mezzogiorno (unità del Paese); eccetera. L’ incontro del 7 dicembre fra sindacati e governo ha confermato la totale indisponibilità dell’esecutivo ad accettare le proposte sindacali, rafforzando il giudizio negativo e la necessità della mobilitazione.

Contemporaneamente è stato approvato in Parlamento un testo contro il salario minimo e a favore dei contratti di prossimità, in cui si punta esplicitamente a depotenziare il fondamentale strumento del contratto nazionale. Quando la povertà aumenta, la fiducia diminuisce e cresce la solitudine; l’alta l’insoddisfazione presente fra le persone condiziona le forme di partecipazione e può più facilmente essere strumentalizzabile. Il cambiamento è profondo e bisogna saperlo interpretare, la realtà economica e materiale che si vive sposta il rapporto fra valori ideali e interessi materiali a favore di questi ultimi.  Non c’è dubbio che la destra abbia deciso di utilizzare a scopo di consenso questa situazione nella sua prima legge di bilancio, facendo apparire preferibile l’individualismo rispetto al collettivo.

Su ognuna di queste scelte bisogna essere fermi nella critica di merito e avanzare, come stiamo facendo, controproposte. Ma bisogna anche inquadrarle in questa nuova strategia e reagire nell’immediato, sapendo che il percorso non sarà breve. Occorrono i risultati di merito per acquisire il necessario consenso intorno a una concezione diversa di futuro ma, in ogni caso, gli elementi essenziali saranno coerenza e credibilità.

Vale per tutte le forze sociali chiamate a ribadire il loro ruolo e autonomia, ma più nello specifico sul versante sindacale. Per le imprese, puntando in maniera evidente ad acquisire consenso verso il lavoro autonomo e le piccole aziende, la destra ripropone un ruolo gerarchicamente sovraordinato, di totale libertà di azione, che richiama il Libro bianco elaborato dal governo Berlusconi e già all’epoca fallito. Per il sindacato, anche precedenti governi hanno oscillato tra tentarne un ridimensionamento, puntando alla irrilevanza o alimentando divisioni fra le diverse organizzazioni, ma non è bastato.

Il sindacato italiano ha ancora una dimensione di massa e un forte tratto confederale: quello che nel corso della sua storia lo ha sempre contraddistinto come elemento di raccordo fra società e Stato (forse l’elemento che dà più fastidio), estendendo progressivamente a tutti i diritti conquistati dal lavoro. Questo governo di destra non propugna l’inutilità del sindacato, ma pensa a organizzazioni meno autonome e con caratteristiche corporative, fino a richiamare per il loro futuro esperienze simili a Paesi con sindacati o solo collaborativi o solo di opposizione.

Non è questa la nostra Storia e non vogliamo sia il nostro futuro. Per questo, valore sociale e costituzionale del lavoro, condizioni materiali dignitose, universalità dei diritti, ruolo dei ccnl, assieme a un moderno concetto di rappresentanza assumono oggi un significato ancor più strategico e di dialogo con le associazioni di impresa. La scelta degli scioperi regionali appena dichiarati è la risposta giusta, segna un forte tratto di coerenza, indica in partenza il livello di insoddisfazione di merito e il difficile confronto che dovremo sostenere.  

Così come, assume ancor più senso e ruolo il rapporto costruito con le tante associazioni della società civile, che ha come baricentro il territorio, laddove opera e si confronta la parte più vitale del Paese. È una fase dunque che va valutata in tutta la sua complessità. L'abbiamo in parte già analizzata nei nostri documenti congressuali, anticipata come idea strategica nella nostra proposta di Carta dei diritti e nella proposta sulla rappresentanza.  Mi soffermo solo su questo ultimo decisivo aspetto, la cui realizzazione segnerebbe un elemento di controtendenza generale alle dinamiche prima richiamate. Si capisce anche per questo il perché delle tante difficoltà alla sua realizzazione legislativa. Con accordi interconfederali, sono state sancite proposte specifiche e molto avanzate, basate sul concetto paritario di rapporti fra lavoro e impresa che stabiliscono chi si rappresenta attraverso percorsi trasparenti e certificati.

Si affrontano così tre fondamentali aspetti: democrazia di organizzazione (ruolo degli iscritti), elettiva (ruolo dei delegati), espressione di voto (da parte di lavoratori su piattaforme e accordi), tutti elementi che militerebbero a favore di una nuova fase sindacale. Occorre sostenere e dare consenso a tutte queste nostre idee, con un’azione coerente basata sul fondamentale concetto di autonomia e quindi su proposta di merito e programmatica. Un’azione basata sul concetto di consenso e di cultura del risultato come tratto unificante di diversi interessi e identità; un sovrappiù di responsabilità che riguarda la Cgil e il sindacato confederale italiano.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio