“Chi l’avrebbe detto? Siamo arrivate sino a qui”. Due mamme di “Priorità alla scuola”, il movimento spontaneo nato ad aprile, in piena epoca Covid, e organizzatore della manifestazione, si guardano intorno mentre la cornice di Piazza del Popolo comincia a riempirsi, e a cambiare colore. Il cielo divenuto plumbeo non promette niente di buono.

Ci sono veramente tutti, gli insegnanti e i genitori, i sindacati e i lavoratori del personale Ata, e le sigle si moltiplicano in breve tempo, da Fridyas For Future a Black Lives Matter Italia; tra gli striscioni appesi alle transenne sotto il palco spicca un lenzuolo bianco con su scritto “Scuola pre-occupata”: tra i tanti, forse è quello che meglio riassume il sentimento della piazza.

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Poi ci sono loro, gli studenti. Si aggiungono alla spicciolata, alcuni si ritrovano nel gruppo degli studenti medi, o dell’Uds. Elena è una ragazza di sedici anni che viene dal liceo Blaise Pascal di Pomezia, il cappuccio blu in testa, anche se la pioggia sembra non turbarla: “L’immagine che ho in mente di questi giorni è quella della mia dirigente scolastica, una persona lasciata praticamente sola, che è riuscita a riaprire la scuola malgrado ci troviamo ancora senza banchi e senza la maggior parte dei professori”.

E il personale Covid? “Per ora nessuno lo ha visto – risponde Giorgio, quarto anno al liceo Augusto di Roma –. Sembrano tanto somigliare ai navigator di qualche tempo fa... Il problema è anche che alcuni ruoli fondamentali per la ripartenza, come quello del responsabile Covid negli istituti, in pratica vengono ricoperti da qualcuno del personale Ata, o da qualche professore di buona volontà. Ma loro devono già occuparsi di molte altre cose in questo periodo”. Lo accompagna il suo amico Leone, anche lui con le idee piuttosto chiare: “Se con il Recovery Fund ci sono veramente dei soldi da spendere, bisogna cominciare subito dal’edilizia scolastica, e potenziando i mezzi di trasporto, soprattutto nei luoghi di periferia, ma anche in città per limitare il rischio di contagio per noi studenti”.

La pioggia ora scende fitta, ma la manifestazione prende il via puntualmente; le voci prendono corpo, intervallati da spazi musicali. Tra le prime a prendere la parola Anita Pellaggi, del coordinamento nazionale  precari della scuola, che ricorda come non si possa programmare una didattica adeguata con continui cambi di docenti, e che i precari non possono continuare a essere utilizzati come materiale usa e getta, né a vivere nei tribunali, passando da un ricorso all’altro, mentre non si è pensato di sfruttare l’esperienza di chi già da anni insegna in classe, guadagnandosi il diritto al lavoro sul campo, giorno dopo giorno, in luogo di concorsi falliti ancor prima di cominciare.

Le definizioni che tornano con maggior frequenza parlano di una scuola a metà, di aperture dimezzate, di tempo pieno rinviato, di una didattica mista che c’è chi vorrebbe sfruttare ad libitum, invece di considerarla un’emergenza da limitare il più possibile. Intanto i divari aumentano, quelli tra Nord e Sud e quelli tra plessi di serie A e serie B, con inevitabili conseguenze in merito al diritto per una scuola aperta a tutti e con le stesse opportunità, come Costituzione insegna. La realtà, invece, insiste nel ricordarci che siamo gli ultimi in Europa per investimenti e ricerca, e tra i primi per abbandono scolastico: in un Paese con la nostra storia e tradizione, culturale e pedagogica, sono numeri non più accettabili.

Mentre gli Assalti Frontali chiudono il pomeriggio, un gruppo di studenti si dirige verso il metrò, e incrociando ignari passanti urlano il loro disagio, “siamo il futuro senza futuro”, suscitando il rimorso di qualche capello ormai grigio.  Eppure, dopo tanta pioggia, è tornato a splendere il sole. Che sia di buon auspicio.