Dopo giorni di polemiche e scontri mediatici, il governo ha trovato un accordo sul decreto scarcerazioni. Qualcuno ha parlato di una marcia indietro del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla questione della scarcerazione dei boss mafiosi, altri invece temono che ora si interrompa quel processo di alleggerimento delle strutture carcerarie che ha permesso di evitare la diffusione del coronavirus negli istituti penitenziari che avrebbero potuto trasformarsi in “bombe” del contagio. Come stanno davvero le cose e quali sono le politiche più corrette da perseguire? Lo abbiamo chiesto a Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si occupa da anni dei diritti delle persone recluse.

Allora Gonnella, c’è stata davvero una retromarcia del governo? Si erano allentati troppo i cordoni rimettendo il libertà criminali pericolosi?

Non entro nel merito di quel provvedimento, fortemente sollecitato dagli investigatori anti-mafia. Se quello che si chiede è una maggiore ponderazione rispetto ad eventuali scarcerazioni di persone con un profilo criminale molto alto non mi pare un fatto problematico, anzi. È un parere in più che viene richiesto ai giudici antimafia. Ovviamente però questa modifica normativa non deve produrre come effetto una forma di delegittimazione della magistratura ordinaria, sia quella di sorveglianza, sia dei Gip, che decidono in fase di custodia cautelare.  E ovviamente si deve evitare di produrre una sorta di misconoscimento della loro indipendenza nell’azione giudiziaria. Detto questo però c’è da dire che quello che preoccupa non è tanto il provvedimento in sé, ma il dibattito che lo ha prodotto: un dibattito molto urlato, molto agitato, con tante imprecisioni al proprio interno. Nel dibattito non si sono distinte le scarcerazioni di persone in regime di 41 bis con persone che erano in custodia cautelare o in altri regimi e che avevano particolari problemi di salute. Quindi ci vuole grande cautela ed equilibrio perché è chiaro che noi ci fidiamo dei magistrati antimafia, ma vorrei che egualmente ci fidassimo anche degli altri magistrati quando intervengono sul diritto alla salute.  Quindi il rischio più grande che vedo (e che deve essere assolutamente evitato) è quello di produrre un freno nei confronti dei magistrati di sorveglianza rispetto alla gran massa dei detenuti che sono poveracci, magari immigrati che stanno alla fine della pena. Dobbiamo avere molto chiaro che l’emergenza sanitaria non è affatto finita. Nuovi focolai si possono manifestare e il sovraffollamento ancora persiste.  Ci sono svariate migliaia di persone in più rispetto ai posti letto effettivi degli istituti penitenziari.  Non dobbiamo quindi passare da un’emergenza ad un’altra. Prima quella del Covid, poi quella della mafia. Dobbiamo abituarci a vivere le scelte con normalità. Passare da un’emergenza ad un’altra senza equilibrio determina un sistema penale schizofrenico.

Ma il rischio della delegittimazione provoca anche un intimorimento dei giudici ordinari e di sorveglianza? Ora hanno paura di essere accusati di volere rimettere in libertà criminali pericolosi?

Il timore è la delegittimazione di operatori penitenziari e magistrati fortemente impegnati nella gestione dell'emergenza sanitaria. Per dirla meglio: se prima il messaggio politico era legato all’allentamento della tensione del sovraffollamento, ora il messaggio politico che si potrebbe cogliere riguarda il pericolo delle scarcerazioni. Quindi il rischio concreto è che si blocchi un processo che invece va proseguito. Ripeto: ci vuole equilibrio. Le misure che erano state adottate per evitare il contagio sono servite, hanno prodotto risultati importanti e non bisogna ora fare neppure un passo indietro. La stragrande maggioranza degli attuali detenuti non c’entra nulla con la criminalità organizzata e le mafie. Su 750 detenuti in regime di 41 bis solo tre sono usciti. Non mi pare proprio questo il problema. Per quanto riguarda gli altri che sono usciti in questi mesi una gran parte erano in regime di custodia cautelare. Per quanto le misure prese ora con il nuovo decreto non si stabilisce una retromarcia, ma un controllo maggiore, una verifica ogni 15 giorni delle condizioni di salute del detenuto scarcerato e sottoposto ad altri regimi. Il diritto alla salute è fondamentale e nessuno può chiedere ai magistrati di far morire i detenuti in galera.

Veniamo quindi ad un bilancio generale delle misure adottate dal governo subito dopo le rivolte e all’inizio della pandemia. I risultati sono incoraggianti. E’ stata una scelta giusta quella dell’alleggerimento degli istituti?

Le misure dirette a ridurre i contatti con l'esterno, come quelle legate alla visita dei parenti, hanno contribuito a ridurre  il contagio. Non si può dire però che l’emergenza coronavirus sia superata. Ci sono stati dei  focolai che hanno coinvolto detenuti e operatori penitenziari. Soprattutto in alcune carceri del nord, come a Torino e Verona. Oggi, grazie al lavoro di magistrati e operatori, nonché alle misure del governo, siamo passati da 61 mila detenuti complessivi nelle carceri italiane a 53 mila. Ma ancora non basta perché la stragrande maggioranza degli istituti penitenziari continua a soffrire di sovraffollamento. Ricordo che la popolazione detenuta è composta per un terzo da immigrati che con le mafie c'entrano poco o nulla. Le carceri oggi sono meno affollate dell’inizio della pandemia perché alle scarcerazioni in questo periodo si sono sommati i mancati nuovi ingressi. Meno arresti semplicemente per il fatto che tra marzo e aprile sono crollati i reati, come ha spiegato la ministra degli Interni. Ma ripeto: sarebbe un grave errore a questo punto fermare il processo di valorizzazione delle misure alternative al carcere. Il primo problema, ancora oggi, continua e essere il sovraffollamento.