“Il Recovery Plan e il Piano nazionale di ripresa e resilienza sono la grande occasione storica per ricostruire il Paese sulla base di un nuovo modello di sviluppo. In tutta la storia dell’Italia repubblicana non c’è mai stata una simile contingenza. E non si tratta solo dell’enorme disponibilità di risorse che solo per i piani europei arriverà a toccare i 200 miliardi di euro (196 miliardi solo dal Recovery Fund). Si tratta piuttosto di una delle sfide più alte a cui siamo chiamati per costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Siamo di fronte ad un bivio e stavolta non si potrà sbagliare”. Non risparmia espressioni forti la vicesegretaria generale della Cgil, Gianna Fracassi, che ha accettato di rispondere alle nostre domande sul Recovery Fund.

Segretaria, nell’opinione pubblica continua però ad esserci molta confusione sui contorni effettivi del Recovery Fund e dei progetti per Next Generation Ue. Potresti riassumerci i termini della questione?

Non si tratta solo di una gigantesca mole di risorse che dovremo trasformare in progetti. Si tratta soprattutto di una grande e inedita occasione per invertire finalmente la rotta su occupazione e politiche di sviluppo. Occorre mettere in campo una progettazione di nuove infrastrutture anche nell’ambito sociale e sanitario. L’infrastrutturazione sociale dovrà marciare di pari passo con l’infrastrutturazione tecnologica e innovativa. Le due grandi sfide su cui l’Europa ci chiama a confrontarci riguardano infatti la digitalizzazione e la riconversione ecologica del sistema produttivo. La sfida sul digitale e sull’economia green dovranno marciare insieme alle azioni per il superamento dei troppi divari di cui l’Italia soffre (donne e uomini, nord e sud, digital divide, ecc). Il nostro Paese continua a scontare un gap con gli altri paesi e soffre di mancanza di programmazione e pianificazione. Ora siamo di fronte al bivio e non si può più sbagliare. Si tratta anche di chiarire bene i contorni di tutto ciò: non ci potremmo affidare passivamente solo alle risorse che ci arrivano dall’Europa. Ci dovranno essere politiche di spesa ordinaria mirate allo stesso obiettivo e si dovranno rispettare le regole del Recovery Plan che sono diverse da quelle utilizzati per i fondi strutturali europei ordinari. Qui abbiamo un obbligo di spesa entro il 2026 e sono previsti vari step intermedi di verifica. Se non si realizzano i progetti nei tempi previsti c’è il rischio di perdere una grande quantità di risorse. Le regole, poi, sono stringenti anche per il semplice fatto che queste risorse vengono finanziate con i  “coronabond” che rappresentano una vera e propria mutualizzazione di debito comune e con l’imposizione tributaria  (tipo per esempio la carbon tax.) 

L’Italia, con il governo Conte, aveva già preparato lo schema dei progetti. Ora il governo Draghi ci ha rimesso mano e si appresta a chiudere la partita. Che tempi abbiamo?

I tempi ormai sono stretti. Il nostro Piano nazionale dovrà essere presentato entro il 30 aprile. Ci sono poche settimane per chiudere. Dopodiché si aprirà la fase della valutazione della Commissione valutazioni e le decisioni finali del Consiglio Europeo. È quindi prevedibile che si possa partire nella seconda metà dell’anno, verso l’autunno 2021. Ma non si dovrà stare con le mani in mano. Si deve avviare la progettazione da subito e non a caso la Cgil ha sempre insistito sulla necessità di mettere in campo una governance efficiente. Noi pensiamo  debba essere centrale nazionale, con la partecipazione e il coinvolgimento delle regioni e degli enti locali e con confronto e negoziazione sia sugli investimenti che sulle riforme con le parti sociali. Il sindacato vuole essere protagonista e abbiamo già verificato la possibilità di spazi di confronto importanti. 

Di che cosa si dovrà parlare? Quali sono le priorità?

Lo abbiamo detto da tempo e lo abbiamo ribadito durante l’audizione in Parlamento: il lavoro, la creazione di occupazione per giovani e donne e la sua tutela, deve essere il fulcro di tutti gli interventi. Il Piano dovrà inoltre recuperare i divari sociali, rispondere ai bisogni delle persone, dei territori (a cominciare dalle aree di crisi complessa) e dell’ambiente. Dovrà delineare un quadro chiaro di politiche industriali e di sviluppo agganciandosi agli obiettivi dell’Unione europea di riconversione green e digitalizzazione. Il confronto con i sindacati dovrà essere ulteriormente rafforzato nella definizione delle riforme. Cinque quelle ritenute necessarie: dalla riforma fiscale, che dovrà essere complessiva e non solo limitarsi all’Irpef, a quella del lavoro, che non può essere spezzata in due ambiti, la riforma degli ammortizzatori deve essere collegata a quella delle politiche attive e anche alla partita della formazione permanente. La riforma del lavoro dovrà essere in grado di contrastare la precarietà, rafforzare la qualità dell’occupazione. Oltre a queste riforme ne sono necessarie altre tre: quella della non autosufficienza, quella della pubblica amministrazione, con un piano straordinario di assunzioni, e quella del sistema di istruzione, dall’innalzamento dell’obbligo a 18 anni all’obbligatorietà della scuola per l’infanzia. Ma è chiaro che il punto critico rimane quello delle politiche industriali e dello sviluppo: va delineato un disegno complessivo, servono misure che colleghino investimenti, incentivi e ricerca. 

Il punto critico – che spesso ha coinvolto anche il sindacato nelle polemiche sulle scelte ambientali – riguarda quindi anche la svolta della sostenibilità ecologica. E’ il banco di prova anche per superare l’antico conflitto tra lavoro e ambiente?

Nei luoghi dove lo scontro tra difesa dell’ambiente e della salute e difesa dei posti di lavoro abbiamo sempre parlato e ci siamo sempre spesi per una giusta transizione. Le nostre scelte sono chiare: abbiamo condiviso l’obiettivo europeo di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030. Avremo quindi una grande occasione di creare nuovi posti di lavoro per produzioni sostenibili. Abbiamo dunque anche l’occasione  e soprattutto le risorse (anche in questo senso è storica) per garantire uno sviluppo sostenibile per il lavoro e per l’ambiente Ma questo obiettivo si potrà raggiungere solo se sarà messa in campo una dose straordinaria di innovazione e di nuova politica industriale. Ci sono banchi di prova molto importanti e già alla nostra portata a partire per esempio da tutto quello che si dovrà fare per sviluppare la mobilità elettrica. Ci sono quindi spazi enormi di intervento nelle politiche industriali e nelle riconversioni delle produzioni. Ma tutto questo si potrà ottenere solo se il nostro paese recupererà la capacità di programmazione e di pianificazione, se si accompagneranno forti investimenti nella ricerca e se contemporaneamente rafforzeremo l’infrastrutturazione sociale, quale risposta alle disuguaglianze e ai divari del Paese.