Dal 12 al 27 ottobre 1968 si svolgono a Città del Messico i Giochi della XIX Olimpiade. Sarà un’olimpiade particolare, passata alla storia per due eventi: il massacro pre-olimpico (il 2 ottobre, dieci giorni prima dell’apertura dei giochi, nella Piazza delle tre culture a Città del Messico, un gruppo di studenti manifesta pacificamente per protestare contro la grossa spesa sostenuta dal presidente Gustavo Díaz Ordaz per costruire gli impianti per gli imminenti giochi olimpici. I soldati, secondo alcuni per ordine diretto del presidente, iniziano a sparare ad altezza d’uomo. Una strage della quale non verrà mai reso noto il numero dei morti, secondo alcuni forse addirittura centinaia) e il saluto a pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos. 

La premiazione 

Durante la premiazione olimpica dei 200 metri piani il vincitore a tempo di record del mondo Tommie Smith con il suo risultato di 19,83 secondi (“The Jet” è il primo ad abbattere il muro dei venti secondi. Ci vorranno 11 anni e l’impresa di Pietro Mennea, sempre in altura a Città del Messico, per battere quel record e abbassarlo a 19’72’’) e il suo connazionale terzo classificato John Carlos alzano il pugno chiuso guantato in nero in segno di protesta contro il razzismo e in risalto delle lotte di potere nero.

Anche Peter Norman, australiano secondo classificato, indossa la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights. “All’inizio non compresi - racconterà - mi dissero che volevano salire sul podio con il pugno alzato e guantato di nero, per mostrare la rabbia della loro gente. Dissero che era necessario farlo, non potevano accettare la medaglia senza un segnale forte. Strinsi le loro mani, dissi che stavo dalla loro parte”. A decine di metri di distanza, il fotografo John Dominis scatta loro una foto che sarebbe diventata una delle più famose del Novecento.

Pugni chiusi e guanti neri

Tommie e John - pugni chiusi e guanti neri - ascoltano l’inno nazionale americano con il capo chinato come per vergogna, tenendo gli occhi fissi sulle loro medaglie in segno di protesta (lo stesso gesto verrà adottato dalla ginnasta ceca Věra Čáslavská, che trovandosi sul gradino più alto del podio insieme alla sovietica Larisa Petrik dopo la gara di corpo libero, rifiuterà di guardare la bandiera dell’Urss e di ascoltarne l’inno, tenendo il capo chinato in segno di protesta dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Questo gesto le costerà un ritiro forzato dalle competizioni e il divieto di viaggiare per 12 anni).

Sono scalzi. Indossano calze nere, per rappresentare la povertà della loro gente. Smith ha una sciarpa nera, Carlos la tuta sbottonata e al collo una collana di perle, per simboleggiare le pietre usate nei linciaggi degli afroamericani. Quando scendono dal podio la loro carriera è finita. Espulsi dal villaggio olimpico, saranno sospesi dalla squadra. La stampa americana li prende di mira, ben presto cominciano le minacce di morte che li avrebbero accompagnati per anni. I tre non si vedranno per moltissimo tempo.

Ma Tommie e John ai funerali di Peter non possono e non vogliono mancare. “La sua eredità è una montagna, inchinatevi a questa montagna - diceva quel giorno Tommie Smith - Peter non ha alzato il pugno, ma ci ha teso la mano. Non ha abbassato la testa, né voltato le spalle. Raccontate ai vostri bambini questa storia”.

Raccontiamo ai bambini questa storia. Non abbassiamo la testa. Non voltiamoci dall’altra parte. Anche oggi. Soprattutto oggi.