Il 18 maggio del 1953 Jacqueline Cochran diventa la prima donna a superare la barriera del suono volando con un F-86 Sabrejet a una velocità media di 1.049,83 km/h. Anche se nell’immaginario collettivo lo scienziato è un uomo con il camice bianco e i capelli all’insù, le donne hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo scientifico fin dall’antichità firmando alcune delle scoperte più importanti del secolo.

Da Marie Sklodwska Curie a Rosalind Franklin; da Rita Levi Montalcini a Margherita Hack; da Lise Meitner a Wu Chieng-Shiung; da Caroline Herschel a Cecilia Payne Gaposchkin, il loro elenco potrebbe essere infinito. Eppure di premi Nobel ‘al femminile’ nella storia ce ne sono stati davvero pochini.

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Rita Levi Montalcini, tra scienza e Resistenza

Nata il 22 aprile del 1909, in una famiglia ebrea sefardita di Torino, aveva 29 anni quando vennero approvate le leggi razziali. La scienziata fu così costretta a spostare le sue ricerche prima in un laboratorio casalingo, poi in Belgio. Neurologa studiava il cervello e le sue dinamiche: "Tutte le grandi tragedie, la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo - diceva - sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva. E il cervello arcaico è così abile da indurci a pensare che tutto questo sia controllato dal nostro pensiero, quando non è così". Sopravvisse all'Olocausto fuggendo dai nazisti e, tornata in Italia entrò in contatto con i partigiani del Partito d'Azione. Il premio Nobel sarebbe arrivato molti anni dopo, ma l'eredità di Rita Levi Montalcini è grande: è quella di una donna che ha saputo abbattere ogni pregiudizio
Rita Levi Montalcini, tra scienza e Resistenza
Rita Levi Montalcini, tra scienza e Resistenza

Fino a oggi il Premio Nobel, istituito nel 1901 è stato assegnato solo a 59 donne (circa il 4% del campione) e il numero delle Nobel scende a 24 se consideriamo le studiose che lo hanno ottenuto nelle discipline scientifiche, economia compresa. C’è però una donna che di premi Nobel ne ha vinti - addirittura! - 2.

Marie Sklodwska Curie, unica donna tra i quattro vincitori di due Nobel, la sola ad aver vinto il Premio in due distinti campi scientifici, la prima donna a laurearsi in Scienze alla Sorbona, la prima ad avere il Dottorato in Scienze in Francia, la prima a essere sepolta nel Pantheon degli Uomini illustri (e del resto l’unica). Troppo per una donna, straniera per giunta, nella Francia dei primi del secolo scorso. Troppi successi, troppa libertà, troppo clamore.

E così Marie viene colpita, come tante prima e dopo di lei. E viene colpita nel suo privato, messa alla berlina da quella stampa misogina ed antisemita già protagonista dell’affare Dreyfus, descritta come una donna dedita a occupazioni tipicamente maschili (“libri, laboratorio, gloria”). Una “perfida straniera, colpevole di aver distrutto una famiglia felice” (a quarantadue anni e dopo quattro di vedovanza, Marie si innamora di un uomo sposato, Paul Langevin, fisico, anche lui sepolto nel Pantheon degli Uomini illustri).

In occasione della consegna del secondo premio Nobel da Stoccolma le scrivono consigliandole di non andare a ritirarlo per non suscitare altre chiacchiere, precisando che “se l’Accademia avesse ritenuto che quelle lettere (lettere private tra Marie e Paul. Naturalmente nessuno condannerà Paul Langevin o gli chiederà di lasciare il paese ndr) potevano essere autentiche, è molto probabile che non le avrebbe concesso il premio”. 

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“Mi sembra che costituirebbe un grave errore da parte mia l’azione che lei mi raccomanda - risponderà la scienziata a Svante Arrhenius - In realtà il premio è stato concesso per la scoperta del radio e del polonio. Credo che non ci sia nessuna connessione fra il mio lavoro scientifico e i fatti della mia vita privata. Non posso accettare, per principio, l’idea che l’apprezzamento del valore del lavoro scientifico possa essere influenzato dai libelli e dalle calunnie sulla vita privata. Sono convinta che molte persone condividano questa opinione. Mi intristisce profondamente che lei non sia fra quelle”.

Una curiosità che forse in pochi conoscono: un anno dopo l’entrata della Francia nella prima guerra mondiale, Marie decide di abbandonare le sue ricerche sulla radioattività e parte con la figlia Irène, per raggiungere i luoghi dei combattimenti.

“Con un semplice e rudimentale apparecchio collocato su una piccola vettura - scrive Sara Sesti - chiamata in suo onore Petite Curie, visitavano i soldati nei fatiscenti ospedali da campo applicando alla cura dei feriti la tecnica radiografica che rendeva le cure meno invasive, dato che si potevano individuare con precisione i proiettili e le schegge dentro i corpi”.

“Madre e figlia - prosegue Sesti - dovettero superare grandi difficoltà e la diffidenza dei militari che non vedevano di buon occhio la presenza di donne nell’esercito e l’iniziativa indipendente dei civili”. Del resto l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano. Siano esse libere. Siano esse streghe. Siano esse scienziate che magari, al fronte, ti salvano anche la vita.