Il 9 luglio 2021 la Gkn Driveline Firenze chiude, senza alcun preavviso, per una delocalizzazione a fini speculativi. La reazione dei circa 500 operai non si fa attendere. Nello stabilimento viene indetta l’assemblea permanente e, dietro al motto partigiano “Insorgiamo”, il Collettivo di Fabbrica avvia una mobilitazione che si intreccia con altre lotte del Paese. Dopo più di due anni e mezzo, la vertenza sindacale sul destino dello stabilimento di Campi Bisenzio non è ancora conclusa, ma le lavoratrici e i lavoratori non si arrendono. Ci sarà anche una loro rappresentanza a Roma, al Nuovo Cinema Aquila, il 20 marzo per la proiezione del film E tu come stai?, diretto da Filippo Maria Gori e Lorenzo Gori, prodotto da Aamod e Istituto Ernesto De Martino. 

Filippo Maria Gori, il documentario parte da quel 9 luglio 2021 in cui gli operai ricevono la notizia della procedura di licenziamento e li segue durante tutti i mesi della mobilitazione. Come avete fatto a trovarvi nel posto giusto al momento giusto
A volte si chiama destino, o sono le coincidenze. Ma, battute a parte, quello è un territorio che conosco bene, molto vicino a Prato, dove ho vissuto gran parte della mia vita. Un territorio dove esiste un senso di comunità molto radicato ed è stata questa la base che ci ha permesso di poter avviare il nostro lavoro. In un primo momento il compito che ci eravamo prefissati era di fare ricerca, raccogliere immagini, senza ancora propriamente pensare alla realizzazione di un documentario. Ma ci siamo resi conto subito che eravamo di fronte a qualcosa di inedito e, piuttosto che farcelo raccontare con delle interviste, abbiamo preferito  affiancare al lavoro di ricerca le riprese in contemporanea. Non avevamo ancora chiaro il progetto, ma sapevamo che sarebbe stato un film.

Come spesso accade nel cinema del reale, il film si scrive mentre lo si fa. E questo è anche garanzia di autenticità, come premere rec e lasciare andare le riprese.
Assolutamente, abbiamo avvertito sin da subito un profondo coinvolgimento, sia di testa che di pancia e in quanto cittadini e lavoratori anche noi. Quel “Tu come stai?” del titolo, che è un intercalare, diventa proprio uno slogan con cui il Collettivo di fabbrica sin dall’inizio si è rivolto a tutti gli altri lavoratori, agli autonomi, alle partite IVA, per cui è più molto più difficile ritrovarsi e organizzarsi come può succedere ancora in una fabbrica. Certo, con tutte le premesse dovute al fatto che il collettivo della Gkn esisteva già da anni, aveva un'organizzazione pregressa. E senza quella domanda “Che cosa sta succedendo? Come state?” probabilmente non sarebbe mai venuto fuori un lavoro come questo.

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«E tu come stai?», un film sulla lotta operaia

Quella domanda è un modo per dire “questa lotta non riguarda solo noi operai, ma riguarda tutti i lavoratori, ognuno con le sue prerogative”. Una sorta di richiamo a uscire dal torpore e dall’isolazionismo. Questo aspetto fa da filo conduttore alla lotta degli operai della Gkn, ma anche al film, facendone un’opera militante, che riattiva lo spettatore.
Questa osservazione è per me una delle più belle che potessi ricevere, perché era proprio questo l'obiettivo, cioè provare a restituire anche al livello narrativo una forte percezione che abbiamo avuto frequentando la fabbrica: la voglia di unire le lotte di realtà diverse, di concepirsi come una comunità, al netto delle differenze che ovviamente ogni settore ha, di sentirsi uniti da una sorta di ordine sociale e culturale. Quella che è stata colpita era una realtà organizzata, pronta – per così dire - alla solidarietà, e non è un caso che il collettivo di fabbrica abbia cominciato ad andare nelle altre fabbriche, a seguire gli scioperi degli altri operai o le altre iniziative, ed è diventato un punto di riferimento per molti all’esterno. Impressionante la violenza e l’inganno con cui sono stati colpiti i lavoratori della Gkn. Sono passati quasi tre anni dall’inizio della vertenza e la cosa che più fa rabbia è l’atteggiamento di pressapochismo, nel migliore dei casi, se non proprio di un’ignoranza colpevole, rispetto alle proposte di questi lavoratori. E questo vale anche per la gestione della vicenda relativa alla nuova proprietà subentrata, che poi si è rivelato un nulla di fatto. Due giorni dopo la proiezione del 20 marzo a Roma, il 22 marzo, saremo alla Sapienza con gli studenti, perché questo è un movimento che continua a ispirare e continua a crescere.

Il film racconta la storia mentre accade. Fa dunque impressione, alla luce di quanto successo dopo, vedere nel documentario il nuovo proprietario Francesco Borgonovo che, parlando in romanesco, rassicura gli operai sul loro futuro, chiedendo loro fiducia e collaborazione. Ma poi le cose sono andate diversamente.
Sì, è così. Il film si chiude con le riprese della vigilia di Natale 2021, quando il nuovo proprietario incontra gli operai. Le avevamo girate veramente pochi mesi prima di metterci al montaggio, e per quanto le avvisaglie ci fossero, eravamo ancora dentro all’accordo quadro che era stato filmato. C'erano tutti i sospetti che potesse andare male, però ufficialmente non era ancora successo niente. E dunque io mi sono posto il problema, al livello di scrittura, di come restituire questa sensazione. Mentre scrivevo sentivo anche tutta la responsabilità verso questa storia, verso questa vertenza. Io credo che quando si lavora in buona fede, soprattutto in empatia con le persone, è veramente difficile prendere delle cantonate, però insomma in quel momento essendo tutto un racconto in presa diretta, in senso letterale, la responsabilità che sentivo era grande. Questi operai non sono nati ieri, persino noi ci eravamo accorti che quella che veniva posta come un’occasione forse non lo era poi veramente, figuriamoci un collettivo preparato come loro.

Tornando ad alcune scelte stilistiche, non ci sono interviste piazzate. La narrazione è affidata a un regista che è un osservatore non partecipante, con cui a volte i protagonisti parlano, ma sempre mentre sono impegnati in altre azioni. Alcuni raccordi sono affidati a video girati in verticale dagli operai con il cellulare. Come siete entrati nella loro quotidianità, che rapporto avete instaurato con loro?
Allora in realtà è stato è abbastanza immediato. Io e l’altro regista, Lorenzo Gori, ci siamo presentati con un'attrezzatura veramente leggera. Lorenzo è giornalista, io ho lavorato come fotografo di cronaca. All’inizio venivamo associati agli altri che arrivavano lì con le telecamere, ma poi noi siamo rimasti, oltre i momenti dedicati alla stampa, abbiamo avviato con loro un confronto veramente molto diretto. Volevamo sì un approccio giornalistico – e questo è il motivo per cui ho coinvolto Lorenzo - ma non un racconto cronachistico. Detto ciò, l’accordo era che noi avremmo filmato tutto senza fare uscire niente e che alla fine lo avremmo rivisto insieme agli operai. Non per un commento tecnico da parte loro, ovviamente, ma per capire se vi si potessero riconoscere. E infatti questa è stata per me la proiezione più importante. Abbiamo trascorso moltissimo tempo con loro. Eravamo lì, invisibili, è stato questo il nostro modo di filmare, e soprattutto il nostro modo anche di non filmare, di stare semplicemente lì. È stato tutto molto spontaneo, anche stringere rapporti d'amicizia. Fin dall'inizio la fabbrica è stata aperta dai lavoratori ai gruppi esterni: altri lavoratori, studenti, ambientalisti, militanti. Oltre al nostro documentario, sulla Gkn è stato realizzato uno spettacolo teatrale che sta girando l'Italia, libri, brani musicali. E questo perché quel collettivo ha avuto la grande intelligenza e il grande coraggio di aprirsi fin dall'inizio ai creativi, per farsi raccontare. Ovviamente con le loro teste - come dicono sempre – e non sopra le loro teste, e in loro ci siamo ritrovati un po' tutti quanti.

Il film racconta, e ne è esso stesso la prova, di un dialogo tra mondo del lavoro e mondo della cultura che per troppo tempo è rimasto interrotto e che in esperienze come queste sembra ripartire.
Sono d’accordo. Per me la cosa veramente sorprendente fin dall'inizio sono stati proprio i rapporti che si sono intrecciati e di cui abbiamo parlato prima. Quando succedono cose come questa, ci si può chiudere in se stessi, o anche in un gruppo isolato, ed è comunque una reazione del tutto legittima. Oppure si può fare come hanno fatto questi operai: riaprire i cancelli, in senso sia letterale che metaforico. Rappresentarsi, raccontare se stessi, anche attraverso il video o altri strumenti, è una cosa tutt’altro che scontata. Io credo che il Collettivo di fabbrica, con quello che ha fatto, sia stato una grande fonte di ispirazione per tante persone. Noi stessi, se quei cancelli fossero rimasti chiusi, con gli operai dentro, non avremmo potuto raccontare questa storia. E invece io credo che quella che abbiamo fatto insieme sia stata una narrazione di pace, di pace sociale mi viene da dire. Due filmmaker come noi hanno probabilmente molto più da spartire con gli operai metalmeccanici, da un punto di vista delle idee e della politica, di quanto non ne abbiamo con tutta una serie di cosiddetti intellettuali. Io sono convinto che si debba sempre stare sul terreno, e quando parti dalle esperienze sul campo, dalle persone, il lavoro non può che venire bene.

“Insorgiamo” è ancora il motto degli operai della Gkn e di tutti coloro che li sostengono. A quasi tre anni di distanza, però, la sensazione è che il gioco del padrone sia sempre lo stesso: “prenderli per stanchezza”, aspettare che mollino e che della vicenda non se ne parli più.
È così. Più di una volta dentro di me ho pensato che si fosse veramente quasi vicini alla fine. Ma poi mi sono sempre dovuto ricredere, perché succedeva qualcosa. C'erano un moto di orgoglio, la voglia di reagire. Oppure una nuova sentenza del tribunale del lavoro di Firenze che annulla i licenziamenti. C’è stato il Capodanno davanti alla fabbrica, un momento di grande euforia palpabile, eppure i mesi senza stipendio cominciavano a essere tanti. Da un lato c’è la loro vertenza, ma dall’altro c’è una lotta più grande, che riguarda anche altre vertenze, altri lavoratori. Se allarghi l’obiettivo, vedi che questo collettivo continua veramente ad essere ovunque in Italia, ad essere chiamato per portare solidarietà in altre situazioni. Credo che sia questa la cosa più importante, oltre e al di là del progetto di riconversione. I tavoli continuano a saltare senza preavviso e questo rivela un comportamento poco serio da parte delle istituzioni, è evidente che manca la volontà politica di far ripartire davvero quella fabbrica. Ma chi ha avuto l'opportunità di conoscere il Collettivo, ha imparato da loro che non si deve per forza aspettare che le cose succedano. Ecco, si può anche far accadere le cose, un po' punzecchiarla, questa realtà.