Il 2023 si è chiuso con un avvenimento storico che ha segnato una tappa fondamentale per i lavoratori dello spettacolo: la firma del primo contratto nazionale per gli intrepreti attrici e attori del cine-audiovisivo. Nel settore del teatro già esiste, ma mancava un pezzo importante, soprattutto al fine di riconoscere le peculiarità di linguaggi e mezzi espressivi molto diversi tra loro, come il palcoscenico e la macchina da presa.

L’ANTICO LEGAME TRA CULTURA E LAVORO

La lunga battaglia per il contratto l’aveva lanciata addirittura Gian Maria Volonté negli anni sessanta. Ma quelli erano i tempi di Apollon, la fabbrica occupata, dei registi che si sporcavano le mani col racconto del lavoro senza filtri, degli intellettuali che scendevano in piazza accanto agli operai, e che spesso nella tasca del cappotto avevano una tessera del sindacato o una del partito. Quando non tutte e due. Poi, per decenni, il crollo delle ideologie e il nichilismo degli anni ottanta hanno creato una frattura profonda tra mondo del lavoro e mondo della cultura, che sembravano non riuscire più a parlarsi.

LA CONDANNA DELLA FAMA

Come se chi produce cultura non lavorasse egli stesso. I frutti puri sono impazziti, trasformando il mondo dello spettacolo in quello dello showbiz in cui, se l’artista raggiunge la fama, gli viene riconosciuto un peso nella società e un corrispettivo valore economico, che gli permette di guadagnare adeguatamente e di definire la sua arte una professione. Ma se l’artista non “sfonda”, l’uomo della strada fa fatica ad accettare che la sua professionalità “meriti” di essere remunerata.

VISTI MA INVISIBILI

Questa fragilità culturale ha trovato terreno fertile per mettere radici in un mercato del lavoro in cui “sei se appari”, e dove la legge della domanda e dell’offerta ha penalizzato gli artisti al grido di “se rifiuti tu, ho la fila dietro, ne prendo un altro”. In un settore estremamente competitivo, in cui mors tua vita mea, in cui si combatte a suon di call back per un ruolo – anche quando misero – è stato facile instillare il seme di una guerra tra poveri, conducendo alla disgregazione una classe di lavoratori che di fatto non si è mai sentita tale. Se, come la saggezza popolare insegna, il figlio del calzolaio va sempre con le scarpe rotte, paradosso vuole che chi fa della visibilità il suo lavoro, sconti la pena di essere quanto mai invisibile per ciò che concerne tutele, diritti, riconoscimento di una retribuzione adeguata.

SOSTITUIBILI E SOCIALIZZABILI

Il cinema è uno di quegli ambiti produttivi in cui alla vulnerabilità della contrattazione si affiancano due altre grandi insidie (non le uniche). La prima è l’intelligenza artificiale, che negli ultimi anni ci ha mostrato come il campionamento di una voce e di un volto possano arrivare persino a mettere in discussione l’unicità e l’autenticità del talento, e di quella che si definisce una prova d’attore. Ancor più se il pubblico, poco incline o abituato alla fruizione culturale, non percepisce una reale differenza tra i biscotti di marca e quelli del discount (per metafore parlando). La seconda è rappresentata dai social, ormai consolidatisi come la punta di una piramide che si è rovesciata, annullando totalmente il valore dello studio, della gavetta e della formazione, necessari a instradare il talento in un percorso di consapevolezza.

Oggi il valore di un artista si misura in follower, prima ancora che in capacità di confrontarsi con un pubblico vero; in video di 90 secondi e solo dopo – casomai – nei formati tradizionali del cinema, della televisione e del teatro. In un tale scenario di Far West mediatico, che farebbe oggi impallidire sia John Wayne che il Berlusca della Fininvest, attori e attrici hanno lavorato troppo a lungo come acrobati senza alcuna rete. Ecco perché questo contratto nazionale, il primo della storia in questo comparto, è una svolta epocale. Un risultato eccezionale per il mondo del lavoro e della rappresentanza sindacale.