Pubblichiamo la prefazione di Ferruccio de Bortoli al libro “Comit, la metamorfosi. Da Gotha della finanza a Galleria d’Arte”, Futura/Ediesse, 2020

Noi milanesi non siamo abituati ad alzare lo sguardo. Nemmeno nelle giornate nelle quali il cielo di Lombardia è “così bello quando è bello, così splendido, così in pace”. Forse lo abbiamo fatto di più durante i mesi della pandemia, costretti in casa a guardare fuori dalle finestre, ma generalmente siamo poco inclini alla contemplazione che mal si concilia con la religione del lavoro. Non è di per sé un male. Eppure la Madonnina, che ci protegge – e tante volte invocata durante la quarantena – guarda in su, non in giù. Dunque, è possibile che a molti milanesi continui a sfuggire la scritta che ancora oggi campeggia in Piazza della Scala: Banca Commerciale Italiana. Sulla facciata del palazzo, opera di Beltrami e Portaluppi, tra i più belli della città, che oggi ospita le Gallerie d’Italia.

Vi chiederete perché, nell’introdurre il libro di Michele Sala (Comit, la metamorfosi, Futura/Ediesse, 2020), sia partito dal Manzoni. Non perché il polo museale comprenda la casa dell’autore dei Promessi Sposi, in Piazza Belgioioso, e non perché la sua opera, con la descrizione della peste che colpì Milano nel 1630, sia stata tante volte richiamata nei mesi drammatici della pandemia. Manzoni è dentro la storia della banca. Anche se probabilmente il senatore del regno, morto nel 1873, mai se lo sarebbe immaginato.

Jósef Leopold Toeplitz arriva a Milano nel 1895 e da allora renderà grande un istituto bancario frutto della convergenza di capitali tedeschi, svizzeri e francesi (a proposito di attrattività milanese). La Comit ha accompagnato le nostre giovinezze (e segnato gli indici di Borsa). Ne abbiamo io e l’autore, per motivi diversi, una certa nostalgia. Suonava così bene. Non come il Footsie-Mib. Bah! Raffaele Mattioli, che difese l’indipendenza della banca negli anni del Fascismo con impegno pari a quello profuso per salvaguardarla dagli appetiti dei partiti nel dopoguerra, quando fu costretto alle dimissioni disse che si sarebbe ritirato per studiare meglio il Manzoni. E approfondire, per esempio, la figura di don Ferrante e della consorte convinto che non fossero un’invenzione dell’autore. Promise che avrebbe viaggiato molto. Restando nella sua biblioteca. Sterminata.

Mattioli morì il 27 luglio del 1973. Dalla sua banca, che governò per quarant’anni, non si staccò mai. Era sempre stato in Piazza della Scala. Ma dal suo ufficio guardava oltre il “capo venerando di Leonardo” e anche oltre i confini italiani, con acume e lungimiranza. Abitava in Via Morone, cioè accanto alla casa del Manzoni. E prima ancora in Via Bigli. Riccardo Bacchelli, che visse a pochi metri di distanza, in Via Borgonuovo, scrisse un libro, Le notti di Via Bigli, descrivendo la vita culturale del salotto di casa Mattioli, che accoglieva – luce accesa nel buio della dittatura – dal poeta Sergio Solmi, suo collega alla Comit, a Curzio Malaparte, da Gustavo Del Vecchio a Piero Sraffa. E ancora: Enrico Cuccia, Adolfo Tino, Ugo La Malfa, Giovanni Malagodi. Mario Soldati disse che quando ascoltava Mattioli “respirava l’aria dei ventilati piani”.

Mattioli custodì I quaderni di Antonio Gramsci, aiutò la Resistenza, nascose e protesse amici e dipendenti ebrei. Il giorno dopo la sua morte Giovanni Spadolini, che aveva appena lasciato il Corriere della Sera (mandato via da Giulia Maria Crespi, poi pentita di averlo fatto, morta nel 2020), tenne una lezione sul Manzoni all’università di Perugia. “E visto che stiamo parlando del senatore di Via Morone, consentitemi di ricordare un altro illustre ospite che ci ha appena lasciati, in cui la religione del Risorgimento viveva con accenti e con animus ispirati alla grande lezione del Manzoni”. Oggi Via Morone è celebre perché vi ha sede la Casaleggio Associati, holding dei Cinque Stelle, ma lasciamo perdere. C’è però ancora l’archivio storico della Comit.

Un anno dopo la morte di Mattioli, l’autore di questo libro di memorie veniva assunto alla Comit, fresco degli studi alla Bocconi e delle lezioni di Aldo De Maddalena sulla figura storica, e non solo di banchiere e intellettuale, di Raffaele Mattioli. Michele Sala trascorrerà l’intera vita lavorativa in Comit, identificandosi con la banca, soprattutto nel ruolo di dirigente sindacale. Il suo è un modo diverso di raccontare un’istituzione cardine del nostro Paese, interprete e protagonista del miracolo economico, punto di riferimento di un establishment colto e cosmopolita anche quando il Paese era ancora rurale e arretrato, simbolo di fiducia e solidità per generazioni di clienti e risparmiatori. Leggere Sala è capire quanto sia importante la cultura d’impresa, l’orgoglio dell’ap­partenenza, la consapevolezza di tracciare orizzonti nuovi nei diritti dei lavoratori.

La privatizzazione della Comit da parte dell’Iri avvenne con l’Opv (Offerta pubblica di vendita) del febbraio del 1994. Sergio Siglienti, amministratore delegato e poi presidente dell’istituto di Piazza della Scala, è morto anche lui nel 2020, nelle settimane del lockdown. Se n’è andato in punta di piedi. Con la discrezione tipica del banchiere gentiluomo. Attitudine rafforzata dal suo carattere sardo. Lo ricordo in questa occasione con affetto e riconoscenza. Un altro grande signore della Comit, colto, arguto, ironico. Scrisse un libro di garbata polemica con Cuccia e Mediobanca, che lo avevano estromesso, dal titolo Una privatizzazione molto privata. Le modalità con le quali la banca veniva messa sul mercato fingendo che potesse essere una public company trovarono la sua netta opposizione.

La Commerciale entrò in una fase d’ombra, non riuscì a prendere la Cariplo; resistette al tentativo di Opa (Offerta pubblica d’acquisto) di Unicredit. L’accordo tra Cuccia e Bazoli favorì la fusione per incorporazione in Intesa, formalizzata nel 2001. Il presidente di Mediobanca voleva che venisse mantenuto l’acronimo Bci, accanto a Intesa, oltre a credere che l’istituto di via Filodrammatici avrebbe continuato a svolgere di fatto il ruolo di investment banking del gruppo nascente. Ma non andò così. Sparì anche quello. Mi sono sempre domandato – e l’ho chiesto anche a Giovanni Bazoli – perché quel marchio così prestigioso non sia stato mantenuto. Era un vessillo dell’internazionalità del credito Made in Italy. Ne scrissi più volte anche raccogliendo l’opinione di un grande giurista come Alberto Crespi, molto ascoltato da Cuccia, Maranghi, Cingano e tanti altri. È un interrogativo aperto. Certo con San Paolo come l’avremmo messa? Dunque alla fine meglio Intesa che nell’estate del 2020 ha lanciato una Ops (Offerta pubblica di scambio) sull’Ubi con la collaborazione determinante di Mediobanca.

Dalla rivalità alla collaborazione. La distinzione fra finanza laica e cattolica che ha caratterizzato per anni le dispute bancarie (e vedeva la Comit come alfiere laico) non esiste più. Nessuno avrebbe immaginato all’indomani della crisi dell’Ambrosiano che da una crisi che allora sembrava profonda e irreversibile, sarebbe nato il più grande gruppo bancario italiano. Dopo l’Ops su Ubi è necessario esplorare opzioni al di fuori dei confini italiani. L’anima cosmopolita dell’eredità della Commerciale, che tanto ha seminato negli anni, può essere utile. Come la storia di una vita in banca raccontata da Sala. La dimensione, ma il senso di appartenenza e la condivisione di una cultura di impresa ancora di più.