Perché uno sciopero per il clima deve essere anche uno sciopero contro la guerra? Perché le connessioni tra conflitti e crisi climatica sono molteplici, e i due temi non sono separati come potrebbe sembrare all’apparenza. Infatti sono al centro della mobilitazione dei ragazzi di Fridays for Future, che venerdì 25 marzo scendono nelle piazze e nelle strade di tutta Italia e di tutto il mondo per far sentire la loro voce e chiedere azioni urgenti per risolvere la crisi climatica e per la pace, insieme a tantissime organizzazioni, enti e associazioni. Una giornata che la Cgil sostiene a livello nazionale e sui territori, con iniziative pubbliche, presenza nei cortei, assemblee nei luoghi di lavoro. E a cui la Flc, Federazione lavoratori della conoscenza, aderisce con uno sciopero del comparto istruzione e ricerca, area dirigenziale, docenti universitari e personale della formazione professionale e delle scuole non statali.

“Oggi chiedere la pace e la sostenibilità ambientale e sociale significa parlare di un modello di sviluppo diverso e nuovo, che tenga conto dei bisogni e del benessere delle persone e del pianeta – afferma Gianna Fracassi, vicesegretaria generale Cgil -. In questo modello la guerra, con il suo portato di morti e distruzioni, è già di per sé fuori. Il conflitto in Ucraina, come gli altri nel mondo, sono legati a una dimensione economica, di sfruttamento, di ricerca del profitto. Il dramma che si sta consumando alle porte dell’Europa ha reso evidente la necessità di un profondo cambiamento anche sul versante della dipendenza energetica dalle fonti fossili e di un’accelerazione degli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia”.

Un cambiamento di paradigma che i giovani del movimento ambientalista ispirato dall’attivista svedese Greta Thunberg hanno riassunto nello slogan della giornata: #peoplenotprofit, per chiedere di costruire un sistema in cui si dia priorità alle persone e non ai profitti; “I Paesi del Nord della Terra garantiscano risarcimenti climatici alle comunità più colpite e i leader mondiali smettano di fare discorsi pieni di greenwashing e intraprendano una vera azione per la salvaguardia del clima” sostengono i promotori.

Dopo 3 anni dal primo global strike che il 15 marzo 2019 aveva fatto manifestare e urlare insieme milioni di giovani e di adulti, le conseguenze della crisi climatica sono diventate sempre più evidenti, come ha rivelato l’ultimo rapporto dell’Ipcc, il panel intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. AR6, presentato a inizio marzo, descrive impatti, vulnerabilità e politiche di adattamento ed è un terribile avvertimento sulle conseguenze dell'inazione: se non riusciremo a contrastare l’aumento della temperatura del Pianeta ci saranno gravi conseguenze sugli ecosistemi e sul nostro benessere, anche in caso di raggiungimento dell’obiettivo 1,5°C (attualmente siamo a 1,1°C), che resta fondamentale per evitare disastri più gravi.

La situazione attuale è infatti addirittura peggiore di quanto avevano previsto in precedenza gli scienziati: nei prossimi anni almeno un miliardo di persone è a rischio inondazioni, soprattutto quanti vivono lungo le coste, se le temperature dovessero aumentare ancora, con un incremento di 1,7°C - 1,8°C quasi metà della popolazione globale (pari a 3,6 miliardi di individui) sarà esposta a condizioni potenzialmente letali. Stesso discorso per le specie animali e vegetali: il 14 per cento sarà ad altissimo rischio estinzione.

“Oggi non discutiamo solo di ambiente e di benessere del nostro Pianeta – prosegue Fracassi -, ma di un cambiamento radicale del paradigma economico che richiede scelte diverse e modelli di consumo diversi, perché quelli che abbiamo conosciuto finora non funzionano. L’economia lineare ci ha dimostrato due fatti: la finitezza delle risorse e l’irreversibilità dei processi. È per questo che dobbiamo perseguire i principi dell’economia circolare. E per farlo, per realizzare i cambiamenti, c’è bisogno di pace”.  

La guerra in Ucraina ha reso evidenti i limiti della dipendenza energetica italiana dalle fonti fossili e in particolare dal gas russo. Ma la strada che si vuole imboccare per fronteggiare l’emergenza è un ritorno alle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato. “Ritornare al carbone è sbagliato, perché bisogna rispettare il piano nazionale che prevede un’uscita entro il 2025 – riprende la sindacalista di corso d’Italia -. Siamo già in ritardo sugli obiettivi europei fissati al 2030 e la vicenda russa ci dice che dobbiamo trasformare il nostro modello ancora più velocemente e andare verso l’autonomia energetica. Nell’immediato dobbiamo trovare alternative al gas russo, ma contestualmente centuplicare gli sforzi sul fronte della produzione da rinnovabili, dove siamo fermi da anni. Noi siamo il Paese del sole e del vento e dobbiamo costruire campi eolici e potenziare il fotovoltaico”.

Decarbonizzare significa perseguire anche strade. Le indica Repower Eu, il piano europeo per ridurre la dipendenza europea dal gas russo, e sono quella dell’efficienza energetica, dove possiamo fare ancora molto, e il risparmio, un diverso modello di consumo che coinvolge le scelte individuali. “Peoplenotprofit, le persone prima del profitto, è la stessa parola d’ordine che abbiamo avuto come sindacato durante la pandemia, quando la battaglia era per la salute e la sicurezza dei lavoratori – conclude la vicesegretaria generale Cgil -. Ma questo è un tema politico che richiede scelte politiche adeguate. Non basta pensare e dire che questi ragazzi che scendono in piazza venerdì sono bravi. Loro chiedono che chi ha la responsabilità politica traduca le istanze in atti concreti: lo dobbiamo a questa generazione che ha patito molto”.