C’è un grande fermento che, da qualche tempo, percorre la scena del sindacalismo americano. Ed è carico di energie e ottimismo. Dopo decenni di arretramenti, sconfitte e delusioni, il mondo del lavoro negli Usa sembra avere imboccato un’altra via, cambiando il registro ideologico e le pratiche organizzative del vecchio e accomodante business unionism, e passare di conseguenza all’offensiva. Ciò avviene sulla base di un piano tattico e strategico, da alcuni anni al centro dell’elaborazione sindacale statunitense, all’insegna di un social movement unionism, radicale e dal basso, di cui anche noi abbiamo avvertito gli echi, ad esempio in tema di organizing e di riforma del sindacato, come quella avviata dal Seiu o dalla coalizione “Change to win”, fra quattro sindacati di settore.

Una nuova fase

Nel 2023, oltre mezzo milione di lavoratori americani ha scioperato, conquistando aumenti salariali medi del 6,6%. Le recenti e clamorose vittorie contro i tre giganti dell’auto (Ford, Gm e Stellantis) – e ora la conquista di un grande stabilimento nell’antisindacale profondo Sud (la Volkswagen di Chattanooga, Tennessee), la paralisi imposta da attori e autori, fino alla vittoria, nel mondo di Hollywood, la sindacalizzazione di 10 mila dipendenti in 400 caffetterie di Starbucks, come fra i magazzinieri e i drivers di Ups e Amazon, a Staten Island (Nyc), l’aumento salariale del 25% nei fast food della California, varie vittorie fra insegnanti e infermieri – sono solo alcune delle concrete attestazioni di questo cambiamento di fase.

A renderlo possibile ha concorso anche – con le dovute proporzioni – quel peculiare network, al contempo editoriale e di elaborazione politico-sindacale, che va sotto il nome di Labor Notes. Nato nel 1979, su iniziativa di un gruppo di militanti sindacali e della sinistra socialista radicale, esso si è dato per prima cosa la forma di un magazine d’informazione e di lotta, pubblicando alcuni manuali del buon sindacalista “piantagrane” (se così vogliamo tradurre l’originale “troublemaker”) e sui segreti dell’organizer di successo.

Testi che, l’attuale presidente del potente sindacato dell’auto (Uaw), Shawn Fain, ha definito nientemeno che la sua “Bibbia” laica di attivista, ispirandolo nel radicale rinnovamento con cui ha prima scalato le cariche nell’organizzazione, per poi guidarla – in questi ultimi due anni – verso traguardi che fino ad allora sarebbero apparsi impensabili.

Il ruolo di Labor Notes

Ma Labor Notes è anche una conferenza che si organizza ogni due anni, in continua ed esponenziale crescita fra una edizione e un’altra, che lo scorso 19-21 aprile ha visto convergere su un grande albergo di Chicago ben 4.700 delegati di base e funzionari sindacali da tutti gli States, ma anche da svariati paesi, fra cui alcuni di noi – da Fiom e Fdv-Cgil – per discutere e scambiarsi esperienze e idee in oltre 300 workshop, su temi sindacali e di relazioni industriali. Un format di estremo interesse, per il carattere estremamente pragmatico e operativo, orizzontale e decentrato, volto a realizzare la massima valorizzazione e messa a confronto fra pratiche di lotta condotte, per lo più in singole unità produttive, alla ricerca delle più efficaci e vincenti.

La cifra di questo sindacalismo dal basso – grassroots e rank-and-file, secondo un lessico anglosassone, noto e compreso anche da noi – risiede nel nesso che può e deve essere costruito fra l’organizing – inteso come capacità di rappresentare i non organizzati –, conflitto e contrattazione collettiva, mirati ad un accordo pregno di avanzamenti: salariali e nelle condizioni generali di lavoro e di vita.

Esperienze concrete

Poche relazioni esperte, interventi brevi e soprattutto tante esperienze concrete da raccontarsi e trasmettersi; per fare network e stabilire contatti. Con appena un paio di momenti in (quasi) plenaria, all’inizio e alla fine, lungo un programma densissimo e protratto fino a sera tardi, grazie anche a momenti di svago e intrattenimento, musicale o di recita teatrale, in un clima di grande effervescenza, reso possibile dalla straordinaria presenza di giovani e giovanissimi. Figli e nipoti di quell’”Altra America”, oggi tornata prepotentemente sulla scena politica e mediatica interazionale, grazie alle mobilitazioni pro-Palestina in tutti i campus universitari. La kefiah è stata, anche a Chicago, un simbolo dominante, adagiata su magliette e felpe della propria organizzazione: Uaw, teamsters o insegnanti democratici, assistenti di volo, dipendenti Amazon, Ups o Starbucks.

“Come vincere l’apatia dei propri colleghi?”, “Come organizzare un picchetto?”, "Come riconoscere dei potenziali leader sindacali nei luoghi di lavoro, e come attivarli?” Erano solo alcuni dei titoli dei tantissimi workshop in cui ciascun partecipante poteva scegliere di ascoltare e intervenire. Si è cantato spesso, fra i saloni dell’Hyatt Hotel, a volte stringendosi le mani, e certe altre volte è parso quasi di stare in sedute di auto-coscienza collettiva, come quando si è discusso sul “Che fare quando il tuo sindacato ti spezza il cuore?”, o il tuo delegato ti delude e non è all’altezza. Ma si è parlato anche di storia, come nel workshop sulla figura leggendaria di Walter Reuther, leader dello Uaw per tutti i 30 gloriosi, dal 1946 al 1970.

Un grande assente: la politica

Colpisce, di contro, la pressoché totale mancanza di interventi o rivendicazioni nei riguardi del quadro politico; sia rispetto all’attuale presidenza Biden – che pure si era da principio proclamata la più filo-sindacale dai tempi di Johnson e che effettivamente ha fatto sentire la sua vicinanza agli operai dell’auto, durante le loro tre settimane di sciopero – sia rispetto al rischio, pur avvertito come catastrofico, di una vittoria di Trump. La politica, convenzionalmente intesa, è stata semplicemente la grande assente della tre giorni di Chicago. La ragione va probabilmente rinvenuta nell’idea – tipica da queste parti – che i lavoratori, e i loro rappresentanti sindacali, devono innanzitutto saper fare da soli; essere cioè capaci di affrontare e ricercare con le loro forze la soluzione ai loro problemi. Senza riporre troppe attese sulle scelte dei governi “amici”, o distogliendo forze ed energie nel contrasto impari, con esecutivi ostili. A ciò ha evidentemente concorso il carattere strutturalmente decentrato dello Stato (come pure del sindacato e delle relazioni industriali nordamericane) e in cui l’azione collettiva fa da sempre i conti con la deliberata macchinosità delle procedure di accesso della rappresentanza nei luoghi di lavoro, e – soprattutto – con la virulenta ostilità padronale all’insediamento e alla contrattazione sindacale.

Vi sono molti Stati in cui, in nome di un malinteso (e sancito per legge) “right-to-work”, i datori di lavoro possono fare di tutto per ostracizzare scioperi e richieste di rappresentanza; incluso il ricorso sistematico ai crumiri. È dunque il padronato il primo e vero bersaglio dell’azione sindacale e solo del tutto secondariamente l’attore pubblico. Intrecciando, in una dimensione di inter-settorialità: classe, genere e razza (secondo il loro lessico).

Mobilitarsi per vincere

L’indagine, il confronto, la mobilitazione, non si disperdono in mille rivoli ma sono, come dicono loro “focused”, sulle possibilità concrete che il movimento sindacale può realisticamente tradurre in conquiste. Indirizzo ben noto, del resto, sin dai tempi in cui Commons, Perlman, Gompers e Reuther, ne definivano i lineamenti teorici per l’Afl-Cio, con riflessi significativi anche sullo scenario sindacale italiano, tradizionalmente scettico verso quel “tradeunionismo”, bread-and-butter e poco ideologico, attraverso la loro traduzione e valorizzazione nell’impostazione giugniana sull’autonomia collettiva e sull’ordinamento intersindacale.

Oggi quella vecchia e classica matrice “volontaristica” rivive in una salsa radicale, come del resto era accaduto coi nostri anni 70, scostandosi da quelle incrostature iper-burocratiche e pseudo-collaborazioniste che, ad esempio, avevamo conosciuto al tempo in cui Marchionne ne decantava, a Detroit, virtù e valenza esemplificativa.

Un pezzo di quella dirigenza sindacale dell’Uaw – sia detto qui per inciso – ha fatto una brutta fine, inseguita da scandali e condanne varie, per aver scambiato concessioni sulla pelle dei lavoratori con il proprio tornaconto personale.

L’orizzonte della speranza

Oggi lo Uaw torna a vincere, e lo fa alla grande, offrendo un modello per tutti. E anche, decisiva, una prospettiva di speranza. Indice, e porta con successo a termine, tre settimane di sciopero a scacchiera, con casse di resistenza in grado di coprire 500 dollari alla settimana per ciascun scioperante (a quando una riflessione, da noi, su questo strumento proficuamente in uso da tante parti?); aumenti del 25% in quattro anni e mezzo (+11% subito); re-introduzione della scala mobile (il c.d. “COLA”: cost-of-living-adjustment), fine del doppio regime salariale, a seconda dell’anzianità professionale, aumento del salario orario d’ingresso, da 16,25 dollari a 22,50; persino, infine, un rimborso di 110 dollari al giorno, perduto durante i picchetti per sciopero.

L’accordo passa con grandi maggioranze in tutti gli stabilimenti chiamati a votarlo. Le vittorie, nelle cose sindacali, sono fondamentali e contagiose. “Abbiamo finalmente posto fine a 40 anni di contrattazione concessiva. È il miglior contratto di tutta la mia vita”, testimonia un attempato quadro sindacale di Gm.

Il successo contro le Three Big dell’auto ha scatenato una reazione a catena. Con un boato in sala, nella giornata di venerdì 19 aprile, è stata accolta la notizia della vittoria nel referendum, tenuto alla Volkswagen di Chattanooga, col 70% di favorevoli a fare finalmente entrare il sindacato fra i 4.300 dipendenti dello stabilimento, dopo due tentativi falliti nel recente passato. Ora il prossimo traguardo è portare a casa lo stesso risultato alla Mercedes di Vance, in Alabama. Colpisce che giganti tedeschi dell’auto, in patria e in Europa campioni di relazioni industriali molto avanzate, vengano nel Sud degli Usa a caccia di condizioni sindacali da paesi in via di sviluppo.

A Chicago, da tutto il mondo

A Chicago c’era una nutrita rappresentanza di delegazioni sindacali da vari paesi; ovviamente il Messico – una cinquantina di workshop erano direttamente in spagnolo, anche per la forte presenza di immigrati latinos –, ma anche il Giappone, la Corea del Sud e l’Europa: Unite dal Regno Unito, la segretaria dei ver.di tedeschi in persona, Yanira Wolf, insieme a vari esponenti dell’Ig Metall e alla Fondazione Rosa Luxemburg, l’If Metall svedese – a parlare dello sciopero alla Tesla (lo sapevate che quel sindacato dispone di un miliardo e mezzo di euro – avete letto bene – in casse di resistenza?) – la Cgt e, per la Cgil, una delegazione della Fiom e il sottoscritto, per la Fdv/Cgil, a riferire in un workshop internazionale di una serie di esperienze realizzate, come Cgil, in questi anni.

Hanno suscitato grande interesse, e anche entusiasmo, le parole pronunciate dal nostro Michele De Palma, specialmente nella plenaria finale di domenica mattina, sulle nostre comuni lotte, con la star di questo evento, Shawn Fain, a chiudere la kermesse. La sua scalata alla presidenza dello Uaw, due anni fa, si è resa possibile grazie alla mobilitazione di una sua frazione, particolarmente radicale e agguerrita: lo Unite All Workers for Democracy (Uawd). Rifiuto di ogni deriva burocratica e consociativa, militanza e democrazia dal basso e strategia all’attacco, sono state le linee-guida di una svolta che non ha tardato a produrre i suoi frutti; a partire dal già ricordato contratto per le tre big dell’auto.

La forza di Shawn Fain

La posa e la prosa di Fain sono tutto un omaggio all’immaginario di classe della sua gente. E, in quelle sale, pronuncia frasi di grande effetto, che scaldano il cuore e generano un contagioso entusiasmo. “Noi siamo qui per porre fine al sindacalismo aziendale (business unionism), alle concessioni senza fine, alla corruzione sindacale e ai lacci che ci hanno imbrigliato. Ho detto tante volte che negoziare buoni contratti conduce a buoni successi, anche sul piano organizzativo. Sono due cose che vanno a braccetto. Da questo punto di vista, il nostro sciopero non è stato soltanto contro le Big Three. È stato di tutta la classe operaia. Ed è la prova di una cosa: che la classe operaia può vincere. Può cambiare il mondo. Noi non vinciamo giocando sulla difensiva o reagendo sempre e solo alle cose. Noi non vinciamo facendo la faccia gentile coi padroni. Noi non vinciamo dicendo ai nostri iscritti cosa fare, cosa dire, o come dirlo. Noi vinciamo dando alle persone della classe operaia gli strumenti, l’ispirazione e il coraggio di alzarsi in piedi, per loro stessi. Da questo punto di vista, io penso, che la classe operaia rappresenti l’arsenale della democrazia, e che i lavoratori siano i liberatori”.

Viene giù il salone, per gli applausi in piedi e i cori, alla fine di questo accorato discorso. Alla fine ha proposto di organizzare uno sciopero generale unitario per il 1° maggio 2028; data in cui verrà a scadenza il contratto collettivo con le Big Three automobilistiche.

Il rischio Trump

Certo, i dati sulla sindacalizzazione non fanno registrare variazioni significative, a quel modesto 10% – tale solo grazie al forte apporto dei dipendenti pubblici (33%) – e potrebbero esserci gravi ripercussioni se da una elezioni di Trump dovesse scaturire una composizione tutta filo-padronale, in seno al cruciale National Labor Relation Board (è l’organismo federale che presiede all’ammissione dei ballottaggi per fare entrare, a maggioranza assoluta, il sindacato nei luoghi di lavoro; controllando pure la regolarità dei conteggi). Ma per ora quella platea di accaniti ed entusiasti attivisti sindacali si gode questo momento di insperati successi, dopo le tante, troppe amarezze degli anni passati.

C’è un bel sole a Chicago, fuori dall’Hyatt Hotel, fra le curatissime aiuole dei parchi e della città tutta. Se sia il segnale di una nuove a durevole primavera, per il movimento sindacale americano, lo verificheremo preso. Con l’auspicio che le sue recenti conquiste parlino e si riverberino anche qui da noi. Per il lavoro e per la lotta che ci attendono. Ma qui a Chicago si sono viste modalità para-congressuali che, per format organizzativo e – soprattutto – per contenuto degli approcci, non sarà per noi inutile passare al giusto vaglio, secondo lo spirito migliore della comparazione e dell’apprendimento mutuo ed emulativo.

Salvo Leonardi, Fondazione Di Vittorio Cgil