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Con l’approvazione dell’ipotesi di piattaforma unitaria del settore chimico-farmaceutico, che sarà sottoposta a consultazione dei lavoratori fin dai prossimi giorni, faremo seguire nelle prossime settimane la predisposizione di piattaforme unitarie nel resto della manifattura, dell’energia, della gomma-plastica e, a marzo, del tessile. Alla fine della tornata contrattuale, proveremo a rinnovare il ccnl a un milione di lavoratori circa. La storia di questi anni ci dice che non esiste altro modo per giungere a risultati positivi se non quello di costruire solide basi unitarie, le uniche in grado di reggere l’urto con le controparti.
Il varo unitario delle piattaforme rappresenta quindi un buon viatico. È infatti a causa delle divisioni del movimento sindacale, della mancanza di una piattaforma comune e perfino di una visione comune, che abbiamo subìto l’azione controriformatrice degli esecutivi che si sono succeduti alla guida del paese e la saldatura di un asse governo-impresa. È questa la nuova forma di concertazione che afferma il primato dell’interlocuzione del governo esclusivamente con l’impresa. Questa è la vera novità politica dell’esecutivo guidato da Renzi.
È necessario, dunque, prendere atto di un pesante arretramento politico, questo sì unitario, e provare a ricostruire una nuova trama del lavoro, una nuova declinazione dei diritti e – perché no? – una nuova era nei rapporti tra le confederazioni. Non c’è un modello sindacale che esce vincente da questa fase e quindi sarà necessaria una riflessione autocritica severa. È consentito oggi, di fronte alla novità assoluta dell’isolamento politico cui è costretto il movimento sindacale, tornare a ragionare prima che il declino e la marginalità diventino la cifra dell’intero sindacato e, cosa assai più grave, del mondo del lavoro?
Basterebbe partire da qui, dalle sconfitte e dagli arretramenti, per trovare razionalmente la forza, e forse anche la voglia, per riaprire un cantiere in grado di misurarsi con la complessità della crisi e con la necessità di una nuova analisi sindacale autonoma. Qualcuno obietterà che questa sarebbe solo l’alleanza della disperazione. Disperazione è subire i colpi della crisi e trovarsi allo stesso tempo sul banco degli accusati, di coloro che la crisi l’hanno causata; è subire una riforma delle pensioni che impoverisce e colpisce direttamente i giovani, la trasformazione del contratto da tempo indeterminato a tempo, il licenziamento collettivo come sentenza indiscutibile dell’impresa, il controllo del lavoratore come mai è successo con la riforma dell’articolo 4 dello Statuto.
Per reagire è necessario cambiare i comportamenti sociali, le pigrizie, le abitudini, l’idea che la competizione dentro il sindacato sia più importante della competizione nei confronti dell’azienda e nella società. La competizione si è ridotta a uno spazio senza idee, alla subalternità ai governi o alla politica, alle frasi spesso vuote e alla naturale sconfitta che segue sempre la disperazione quando non è sorretta da un progetto razionale e perseguibile. La tentazione di mischiare “sociale” e “politico”, in una traduzione domestica del modello sudamericano o ancora il comodo acquartieramento dentro le garanzie dell’impresa, sono i due poli di un messaggio di rinuncia che non trova lo spazio per costruire una solida alternativa in grado di parlare al mondo del lavoro e all’insieme della società.
A voler semplificare, sia il sindacato conflittuale che quello cogestionario hanno mostrato i loro limiti: non si è vinta la battaglia contro la Fiat e non c’è l’ombra di un Consiglio di sorveglianza. C’è abbastanza materia per riflettere sugli orientamenti della grande impresa italiana. Non solo. A rischio è anche il contratto collettivo, quel particolare strumento di autogoverno delle dinamiche sociali che oggi rischia di essere spazzato da una spinta alla legificazione che produrrà ulteriori diseguaglianze, indebolirà i più deboli e innanzitutto i giovani, renderà inutile lo spazio di confronto con le aziende.
C’è il rischio di un salto all’indietro spaventoso a causa di un modello sociale autoritario che spinge verso lo scontro dentro uno schema in cui governo e imprese si trovano dalla stessa parte della barricata contro i diritti del lavoro. Curiosamente vicino al modello che abbiamo conosciuto negli anni cinquanta e sessanta, sembrerebbe un nuovo “frontismo” che non conosce altro che l’attacco politico diretto alle organizzazioni dei lavoratori. La differenza risiede nella crisi forte e penetrante. In quegli anni si “produceva” classe operaia, il movimento si allargava e la forza del sindacato era indubbiamente crescente.
Oggi il rischio è di una sconfitta storica, poiché la base industriale del lavoro si restringe, vive una sua precarietà, avverte l’isolamento attorno a sé. È questo il motivo per cui oggi rischiamo una sconfitta storica, poiché non tornerà più il tempo delle vecchie protezioni statali, di un mercato comunque costretto a confrontarsi innanzitutto con la domanda interna, con un paese che cresce. Qui sta la cecità di Renzi e la debolezza del progetto del Pd. Immaginare che basti sferzare il sindacato, diminuire i diritti per costruire occasioni nuove per il paese nello scenario globale resta soltanto un’illusione.
E allora il sindacato deve necessariamente costruire una sua idea, che non è né il vecchio statalismo a forza di debito pubblico, né la resa di fronte a un liberismo selvaggio che non è nelle corde del nostro paese, nella sua cultura industriale e che presupporrebbe una struttura d’impresa forte che qui non c’è. Non siamo gli Usa, né l’Inghilterra, apparteniamo a una cultura di incontro tra sistema pubblico e privato, a un “temperamento” degli istinti puri della competizione. Per questi motivi ho trovato sconcertanti le risposte a un tentativo – peraltro prudente – di Susanna Camusso a proposito del rapporto tra le tre confederazioni.
Battute ed esemplificazioni che danno la misura del tono basso del confronto sindacale: la scoperta dell’acqua calda, ritorno agli anni settanta. La stessa Anna Maria Furlan richiama la natura sindacale delle divisioni. Certo che le divisioni sono sindacali. In questi anni abbiamo prodotto distanze, anche culturali, profonde. Abbiamo concepito modelli sindacali diversi e costruito piattaforme spesso alternative tra loro. Ovvio che bisogna partire dalle divisioni, dalle differenti analisi.
Ma è necessario che il dibattito riprenda vigore, che non sia di luoghi ristretti, coinvolga la nostra gente, l’insieme del mondo che si occupa del sociale, le migliori energie di questo paese ed europee che hanno ragionato sui modelli sociali, la contrattazione, la “governance” aziendale, i diritti diffusi, le nuove povertà, il rischio di livellamento verso il basso delle imprese e delle loro professionalità. C’è bisogno di una nuova consapevolezza e di una nuova umiltà.
Fare i contratti e pensare in grande, al quadro europeo, alla competizione globale, alla funzione che il mondo del lavoro deve sapere assolvere nel nuovo scenario. Altrimenti siamo al recinto, a quello spazio angusto e delimitato che si vuole cucire addosso al sindacato: corporativo, rappresentante della grande azienda, con la testa fuori dalla dimensione sociale più complessiva, utile a distribuire quel poco che resta in coda alle esigenze d’impresa.
Certo, noi come categorie dell’industria continueremo ad alimentare il nostro tessuto unitario dentro una dialettica in cui permangono distanze sensibili, ma che non possono e non devono fare velo alla ricerca continua di un’alleanza tra le forze del lavoro. Proseguiremo con la consapevolezza che nessun favore più grande può essere fatto all’impresa che quello di continuare a usare tutte le nostre energie in una grande battaglia che veda contrapposti i lavoratori. Questo errore non vogliamo farlo e ci sentiamo impegnati a evitarlo.
*Segretario generale Filctem