PHOTO
Commercio internazionale e sviluppo
Dopo che la mobilitazione sindacale e della società civile e la ferma posizione dei governi dei paesi emergenti hanno bloccato il negoziato OMC a Seattle, e dopo che la mobilitazione internazionale e l’opposizione di alcuni governi ha impedito l’approvazione dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (AMI), i governi dell’OMC, a Doha, hanno solennemente dichiarato di voler mettere le politiche commerciali al servizio dello sviluppo dei paesi meno avanzati, attraverso la cosiddetta Agenda per lo Sviluppo di Doha.
Quel round negoziale ha vissuto un crescente stallo, dovuto soprattutto alla indisponibilità statunitense ed europea a rimuovere gli enormi sussidi ai loro agricoltori, garantendo – se così avessero fatto – la sovranità alimentare dei paesi meno sviluppati, così come un commercio più libero ed equo. Dall’altra parte, i profondi cambiamenti nell’economia globale e il prepotente emergere delle economie dei cosiddetti BRICS e di altri paesi “intermedi”, hanno modificato i rapporti di forza intergovernativi all’interno dell’OMC, rendendo sempre più complicato il raggiungimento di accordi multilaterali di regolazione del commercio internazionale, mentre gli obiettivi di sviluppo rimanevano una sorta di foglia di fico dietro cui nascondere la spinta preponderante alla globalizzazione – attraverso il libero commercio – delle politiche neoliberiste.
Il limitato e modesto compromesso raggiunto a Bali sulle facilitazioni commerciali, se apparentemente garantisce la sovranità alimentare dei paesi in via di sviluppo, in realtà obbliga i paesi più poveri ad investire quote ingenti delle loro scarse risorse nell’ammodernamento dei sistemi doganali e di libera circolazione delle merci importate, senza nessuna contropartita vincolante sugli aiuti – economici, tecnologici, di competenze – necessari a questi adeguamenti e senza reali ricadute sulle loro possibilità e capacità di esportazione verso i paesi più ricchi.
Bilateralismo vs multilateralismo
I paesi maggiormente industrializzati e dominanti la scena globale stavano, intanto, promuovendo un crescente numero di accordi bilaterali e plurilaterali, verso tutte le aree geografiche e in tutti i settori della produzione e dei servizi (si pensi al NAFTA nel 1994 e, sul versante UE, agli EPA con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico), con maggiore attenzione – tra i paesi industrializzati – alla completa apertura e liberalizzazione di tutti i servizi pubblici, visti come fonte di nuove possibilità competitive di investimento per il settore privato, esportazione e crescita. Voluti per indebolire e condizionare i negoziati multilaterali, gli FTA (accordi di libero scambio) bilaterali e tra regioni hanno contribuito al prolungato stallo del negoziato OMC, traendo poi da questo stallo una “giustificazione” alla ulteriore proliferazione di negoziati e accordi bilaterali.
La crisi economica e finanziaria, esplosa nel 2007-2008 e tuttora acuta in molti paesi avanzati e causa del relativo declino dei tassi di crescita nelle economie emergenti e in via di sviluppo, ha spinto i governi occidentali ad accentuare ulteriormente la propensione agli accordi bilaterali, come ipotetica via per l’aumento delle esportazioni e quindi della crescita e come strumento per costruire nuove regolazioni (meglio de regolazioni e liberalizzazioni) da far poi valere sul tavolo multilaterale.
Mentre muoveva dalla promessa di risultati positivi per tutti i contraenti, nessuno di questi numerosi accordi di libero scambio si basava - come da sempre richiesto dai sindacati – su alcuno studio preventivo di impatto occupazionale e sociale. I risultati a posteriori (si veda ancora al NAFTA) hanno evidenziato consistenti perdite di posti di lavoro nei settori e nei paesi esposti alla concorrenza, mentre non hanno certificato guadagni occupazionali stabili e di qualità nei paesi “controparte”.
La Commissione Europea, negli ultimi anni, si è distinta nello sforzo di allargare negoziati e accordi commerciali bilaterali, sostenendo esplicitamente che la via d’uscita alla recessione e stagnazione dell’Europa, e dell’Eurozona in particolare, risiederebbe nell’aumento delle esportazioni verso le altre aree geografiche.
Naturalmente, il commercio internazionale è un gioco a somma zero: se da una parte aumenta l’export, dall’altra deve aumentare l’import; ovviamente il quadro è articolato e complesso: lo stesso paese può aumentare l’export in qualche settore e aumentare l’import in altri. Ma la bilancia complessiva alla fine non può essere attiva per tutti. Se ci sono paesi in surplus, ce ne saranno sicuramente in deficit. Del resto, tutte le organizzazioni internazionali e lo stesso G20 – seppur con il linguaggio paludato della diplomazia – hanno nell’ultimo decennio spinto perché la Cina riequilibrasse il suo modello di crescita, riducendo l’enorme surplus estero a favore di un maggior peso del mercato interno, capace di assorbire sia capitali e prodotti cinesi, sia di importazione, dando maggior respiro ad altre economie costantemente in deficit nei suoi confronti.
Ma il problema è presente anche in Europa. Una politica economica trainata dalle esportazioni non fa altro che aumentare gli squilibri interni all’Unione tra le economie più forti e a maggiore esportazione e quelle più deboli, che semmai subiscono gli effetti negativi di alcune liberalizzazioni commerciali.
TTIP: eliminare le “barriere non tariffarie”, cioè leggi e regolamenti ambientali, sociali, del lavoro
E’ in questo contesto che si colloca il negoziato in tra UE e Usa per il TTIP. La Commissione Europea ha presentato alcuni studi preliminari sugli effetti dell’accordo e la prima osservazione da fare è che – nella migliore delle ipotesi avanzata e propagandata dalla Commissione – saremmo comunque di fronte ad un impatto macroeconomico modesto, con una ipotizzata crescita del PIL dello 0,5% a regime, cioè non prima del 2027. Ora se, tanto più di fronte alla crisi, qualunque incremento della crescita va apprezzato positivamente, le modeste previsioni a sostegno della necessità dell’accordo vanno considerate con attenzione, in relazione ai potenziali rischi.
Tanto più che lo sbandierato aumento di posti di lavoro che conseguirebbe a questo incremento del PIL non risulta provenire da alcun serio studio preventivo di impatto per settori e paesi. Del resto è noto e riconosciuto dai negoziatori che l’interscambio Europa – Usa rappresenta già oggi la quota maggioritaria del commercio globale e che le barriere tariffarie sono già ridotte a livelli significativamente bassi.
I vantaggi proclamati dalla Commissione e dalla Amministrazione Usa risiedono, infatti, quasi esclusivamente nella volontà di abbattere le cosiddette barriere non tariffarie, che altro non sono se non leggi, regolamenti, procedure oggi definite liberamente da ciascun Paese, dall’Unione Europea e dal Congresso statunitense. Si tratta di un negoziato in cui è assolutamente preminente la dimensione regolatoria (de regolatoria nelle intenzioni delle grandi imprese transazionali e di diversi settori politici delle due parti): si tratta, cioè, di facilitare gli scambi commerciali intervenendo sulle regole fitosanitarie, sulle norme ambientali e del lavoro, sulle regolazioni poste dalle autorità locali e nazionali, sulle norme che definiscono la sicurezza dei prodotti o la loro efficienza energetica e così via.
Il negoziato TTIP deve rispettare diritti e processi democratici
Per i sindacati, di nuovo, la prima domanda riguarda il fatto se sia accettabile che due sole amministrazioni – per quanto democratiche e alla guida di paesi o Unioni forti e importanti nello scacchiere globale – possano esplicitamente porsi l’obiettivo di determinare regole che poi andrebbero imposte a tutti nel contesto multilaterale globale. Ma si pone – immediatamente e concretamente – anche un problema di democrazia interna:
- Il negoziato è in corso da mesi sostanzialmente in maniera del tutto segreta. Il Parlamento Europeo e i Parlamenti dei 28 paesi dell’Unione – per rimanere da questa parte dell’Atlantico – sono sostanzialmente esclusi da ogni conoscenza, dibattito, possibilità di influenza sull’andamento del negoziato. Perfino i governi dichiarano di non conoscere il contenuto reale delle proposte negoziali sul tappeto, anche di quelle avanzate dal Commissario Europeo. I Parlamenti saranno probabilmente chiamati ad un voto a negoziato concluso, con la formula del “prendere o lasciare”;
- A maggior ragione sindacati e società civile sono sostanzialmente esclusi dall’informazione e dalla consultazione reale: non si possono definire in questo modo, infatti, gli sporadici incontri che la Commissione organizza con la società civile durante i quali – in poche decine di minuti – vengono date informazioni del tutto generali sui temi del negoziato. Al contrario, le potenti lobby imprenditoriali e di impresa hanno acceso quotidiano ai negoziatori europei, sono a conoscenza dei particolari del negoziato e influenzano pesantemente il suo andamento.
Ma i pericoli per la democrazia e lo spazio di decisione politica dei governi, secondo le procedure democratiche di ciascun Paese, sono ben più profondi e duraturi almeno per due dei meccanismi che il TTIP intende promuovere: l’istituzione di un Consiglio per la Cooperazione Regolativa (Regulatory Cooperation Council – RCC) e un meccanismo di regolazione delle controversie investitore-stato (Investor-State Dispute Settlement – ISDS).
- Il Consiglio - organismo nominato dalla Commissione Europea e dall’Amministrazione Usa - dovrebbe sorvegliare sulle misure di “armonizzazione” delle legislazioni e delle regolazioni delle due parti e “prevenire” ogni futura modifica che possa avere conseguenze negative sulle decisioni di liberalizzazione commerciale contenute nel TTIP. In altre parole, l’attuale corpus legislativo e regolamentare dell’Unione sarà sottoposto alla armonizzazione - convergenza con le leggi e i regolamenti statunitensi. Ogni futura iniziativa legislativa nell’ambito dell’Unione dovrà preventivamente essere vagliata da questo organismo tecnico e autoreferenziale, privo di alcun mandato democratico. Le recenti elezioni europee hanno fortemente confermato la richiesta della maggior parte dei cittadini per un’Europa più democratica e partecipativa, basata su organismi elettivi che rispondano ai cittadini. Qui si vorrebbe creare un super organismo intercontinentale che prevarica sulle capacità legislative delle istituzioni democraticamente elette!
- Il cosiddetto ISDS è un meccanismo di arbitrato internazionale che sfugge a tutte le norme e i controlli di un normale sistema giudiziario. Introdotto fin dagli anni ’50 in molti Trattati Bilaterali sugli Investimenti (BIT), partiva dalla necessità di “proteggere” gli investitori occidentali in paesi dove si presumeva il sistema legale fosse non particolarmente equo ed efficace. Si giustificava con la necessità di dare all’investitore straniero le stesse opportunità dell’investitore locale di fronte allo Stato e alla legge, evitando qualsiasi discriminazione. In realtà, ammesso che le motivazioni fossero valide, l’esplosione nell’ultimo decennio delle cause intentate da potenti multinazionali contro diversi stati – incluse le democrazie avanzate – ha dimostrato che il meccanismo consente alle sole multinazionali (anche per gli enormi costi che sulle controversie lucrano 4 o 5 ben avviati studi legali basati a Londra o Washington) di chiamare a giudizio stati e governi – con risarcimenti di centinaia di miliardi di euro – perché provvedimenti di legge democraticamente definiti nell’interesse dei cittadini danneggerebbero, in maniera diretta o indiretta, i profitti che quelle imprese avevano preventivato all’atto dell’investimento e delle leggi allora vigenti. Solo per citare alcuni esempi, la Germania è stata chiamata in causa dalla Vatterfall per i danni che avrebbe subito dalla decisione di avviare la chiusura delle centrali nucleari; l’Australia deve risarcire Marlboro per la legge che prescrive di indicare sui pacchetti di sigarette la nocività del fumo; l’Egitto deve rispondere ad una richiesta di danni per aver deciso l’aumento del salario minimo.
Di fronte al rifiuto di alcuni governi (Germania e Francia; il governo italiano – secondo quanto recentemente riferito dal Vice Ministro Calenda – avrebbe cambiato opinione, passando ad una posizione favorevole, dopo l’iniziale rifiuto) la Commissione ha aperto una consultazione pubblica sull’ISDS nel TTIP (avendolo invece già sottoscritto nel CETA con il Canada).
La CGIL sostiene fortemente la posizione della CES – espressa in una prima bozza di risposta alla consultazione – di netto e totale rifiuto di inserimento di qualsiasi meccanismo ISDS nell’eventuale accordo TTIP. Chiede di respingere con decisione ogni tentativo di inserimento di “nuovi modelli” di ISDS. Non esiste alcuna ragione per accettare ipotesi di particolare “protezione” degli investimenti Usa in Europa; né si può in alcun modo sostenere che i sistemi legali europeo e statunitense non garantiscano efficace protezione degli investitori stranieri contro eventuali discriminazioni. Va garantita la piena libertà degli Stati, secondo le loro procedure democratiche, di promulgare leggi e regolamenti nell’interesse dei cittadini senza sottostare al ricatto del possibile ricorso legale di un impresa o di un gruppo finanziario privato.
Diritti ambientali, sociali, del lavoro e servizi pubblici devono prevalere su ogni accordo commerciale
Ulteriori elementi di salvaguardia politica e sociale debbono costituire elementi irrinunciabili nel negoziato TTIP e in qualsiasi negoziato di carattere commerciale:
- L’esclusione di qualsiasi liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali (educazione, salute, acqua, energia, trasporto, poste ...) e delle politiche di appalto pubblico, garantendo il pieno spazio politico di decisione dei diversi paesi su queste materie;
- L’esclusione di qualsiasi tentativo di regolazione dei flussi migratori e della mobilità dei lavoratori, che trovano i loro ambiti di regolazione nel quadro dei diritti umani fondamentali e delle norme sociali e del lavoro definite dall’OIL;
- La piena coerenza di ogni regolamentazione commerciale verso il quadro dei trattati e delle norme ambientali e verso le norme internazionali del lavoro dell’OIL, nonché il rispetto, da parte degli investitori e delle imprese straniere, dei Principi ONU su Imprese e Diritti Umani, della Dichiarazione OIL e delle Linee Guida Ocse sulle Multinazionali;
- Alla luce delle negative esperienze relative – ad esempio – al FTA tra Unione Europea e Corea del Sud, un eventuale accordo deve contenere, nel capitolo sulla sostenibilità, clausole vincolanti ed esigibili riguardo alle norme ambientali, sociali e del lavoro, azionabili allo stesso modo delle clausole commerciali in caso di violazione.
Il governo italiano deve garantire informazione e trasparenza e confrontarsi con parti sociali e società civile sugli impatti reali del negoziato TTIP
La CGIL chiede al governo italiano di aprire un serio confronto con le parti sociali e la società civile per un’adeguata informazione e discussione sull’andamento del negoziato, partendo da una articolata e credibile valutazione congiunta dei possibili effetti sull’occupazione – settore per settore, regione per regione – e sul tessuto, in particolare, della piccola e media impresa. Non è sufficiente l’enfasi posta sull’importanza dell’esportazione per il nostro paese: sappiamo, infatti, che delle decine di migliaia di imprese esportatrici, solo una piccolissima parte ha la solidità e la struttura per competere sul livello intercontinentale, mentre la maggioranza si muove su un ambito europeo o di maggiore prossimità ed ha caratteristiche di grande fragilità, a partire dai problemi di accesso al credito, come – anche più in generale – di adeguatezza tecnologica. Così come l’ispirazione “offensiva” del governo sulle “denominazioni geografiche” si scontra con il fatto che i negoziatori Usa hanno posto finora un chiaro veto alla modifica di denominazioni, magari promosse dall’attività imprenditoriale di nostri connazionali emigrati.
Solo se risponde alle condizioni qui indicate, il TTIP può costituire un fatto positivo anche per i lavoratori e i cittadini. Se il negoziato continuasse a seguire l’attuale percorso – così profondamente segnato, dietro la segretezza, dal peso delle lobby industriali e finanziarie, che quotidianamente discutono e influenzano i negoziatori ufficiali - si risolverebbe nell’ennesimo avanzamento delle politiche neoliberiste che abbiamo sperimentano nello scorso ventennio, con conseguenze sociali e occupazionali nefaste.
Come sostengono la CSI e la CES, il commercio deve servire i lavoratori e i cittadini, non la logica del profitto.