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In queste settimane diverse sono state le analisi sul voto del quattro marzo. C’è chi sostiene sia stato un voto antieuropeista, in linea con il disagio crescente e contro le politiche europee che hanno smarrito la strada dell’Europa dei popoli tracciata da Altiero Spinelli e Jean Monnet. Un’Europa piegata alla globalizzazione e alla ricerca di equilibri della finanza e dei mercati, poco interessata a politiche omogenee tese a garantire le necessarie protezioni sociali contro la più forte crisi del dopoguerra. Anche se, a dire il vero, le politiche che hanno avuto Francia e Germania nella gestione della crisi sono state molto più protezioniste e nazionaliste di quello che si evince. In parole povere, mentre Francia e Germania – i costi dell’unificazione tedesca alla Ue andrebbero ricordati più spesso – hanno prodotto protezioni sociali e difeso le proprie aziende e i lavoratori, il nostro Paese ha accettato debolmente di fare scelte dolorose che sono ricadute sulle classi più deboli e meno protette. Altri sostengono che anche la gestione dell’emergenza immigrazione, che ha ingenerato paure e maggiore richiesta di sicurezza, sia stata una causa che ha determinato il voto verso la Lega. Ma anche qui l’Europa ha avuto un ruolo determinante, lasciando solo il nostro da Paese a gestire il fenomeno migratorio nel momento più difficile della crisi internazionale e dei conflitti nell’area del mediterraneo. Ecco perché l’Europa deve rivedere e rendere omogenee le proprie scelte strategiche nel sostenere le regioni più arretrare, per eliminare il divario tra regioni, macroregioni e Paesi membri, eliminando concorrenza e dumping istituzionali e sociali.
Si sono sviluppate diverse analisi e letture del voto nel Mezzogiorno, a partire da coloro che hanno assimilato il voto del Sud al reddito di cittadinanza. Niente di più sbagliato. L’esito del voto era prevedibile: è stato un voto consapevole, di rabbia, verso una classe dirigente ritenuta ostile, autoreferenziale, arrogante. Una classe dirigente formata da elite chiuse nei palazzi, priva di antenne sociali, che ha selezionato classi dirigenti per familismi, clientele, cooptazioni. Che non è stata in grado di capire e assumere iniziative verso il malessere crescente, il disagio sociale, le disuaglianze, la mancanza di investimenti ordinari e di lavoro, la povertà crescente, la fuga dei giovani, il precariato. Il Sud, nella più grande crisi del dopoguerra, non ha votato per avere soluzioni assistenziali e il reddito di cittadinanza. Ha votato Lega e 5 Stelle perché ha perso la fiducia verso una politica, si è sentito abbandonato, tradito, da classi dirigenti lo hanno utilizzato elettoralmente e reso sterile.
Se ancora il Sud è vivo è grazie alla sua profonda forza interiore, alla propria gente, ai diversi corpi intermedi che hanno supplito nel tempo, con grandi difficoltà, all’assenza di una classe dirigente che continua a perpetrare gli stessi errori, autoreferenziale, senza una visione, asservita ad ogni cambiamento climatico della geopolitica nazionale, camaleontica, che riesce ad essere nello stesso tempo maggioranza e opposizione a seconda delle latitudini e degli uomini forti, forte con i deboli, debole con i forti, pronta a prendersela con la burocrazia se le cose vanno male. Una classe dirigente che nel tempo in Calabria non ha svolto una politica. Mentre i partiti del centrosinistra che avrebbero dovuto orientare il lavoro della giunta regionale, assistere il consiglio regionale, fare da collante con il mondo del lavoro, le associazioni e la società civile, si sono chiusi nei palazzi del potere. Si è assistito ad una auto-normalizzazione del Pd e degli altri partiti che sostenevano e sostengono la maggioranza. Questo ha provocato negli anni un verticismo indotto e anche determinato che di certo non ha aiutato il governatore nelle sue scelte, e lo stesso, molte volte, ha dovuto avocare a sé azioni che avrebbe dovuto svolgere la politica, come ad esempio per la sanità. È mancato il Consiglio regionale ed i consiglieri che, pur avendone competenze e capacità, hanno scelto di esercitare un ruolo secondario, che di fatto ne indebolisce ruolo e funzione, pressoché impercepibile nella consiliatura, E anche il sindacato ha avuto le sue responsabilità. Ecco perché, come detto in piazza il 16 novembre (altro errore è aver sottovalutato quella piazza) si dovrebbe ripartire da un assunto: il Consiglio regionale dovrebbe assumere la sua centralità ed ognuno deve tornare a esercitare il proprio ruolo e funzione, senza abdicare alle proprie prerogative. Il Consiglio regionale torni a legiferare, parlare di riforme, di lavoro, di sanità, di povertà, di sviluppo, di legalità e convochi una sessione straordinaria sulle emergenze. Inizi a discutere su come riformare e rendere moderna una Calabria anche dal punto di vista istituzionale.
In questi giorni la politica tutta – dal governatore ai segretari di partito – ha ammesso dopo qualche mese che la Calabria deve cambiare passo. Hanno utilizzato questa frase, la frase della manifestazione del 16 novembre che come Cgil e Uil abbiamo tenuto sotto la cittadella regionale. Non ci soddisfa certamente il riconoscimento postumo, ma ci sorprende invece il ritardo con cui si avvertono i polsi di una Calabria che avrebbe bisogno di una visione e prospettiva. Il grave problema del centrosinistra è essersi disconnesso dal disagio sociale, dai più deboli, dalle persone, dalle famiglie, dalla realtà che è diversa dal racconto; per questo è necessario ripristinare e ricostruire i luoghi di un pensiero e di una visione. Quando si è svolto un lavoro comune, come l’individuazione della Zes, che dà centralità a Gioia Tauro ma si espande in modo strategico sul resto del territorio calabrese, si sono ottenuti anche primi segnali di cambiamento: qui è prevalso l’ascolto, e anche il sindacato si è assunto le responsabilità e avuto il suo merito. Così come avvenuto sugli ammortizzatori sociali ed Lsu Lpu. Occorre non disperdere quest’ultimo scorcio di consiliatura regionale e ripartire dal Piano per il lavoro e lo sviluppo, dalle riforme istituzionali, dall’innovazione, dallo strumento di sostegno al welfare e reddito delle famiglie, dall’assetto e dalla manutenzione del territorio e fare partire la spesa comunitaria, ordinaria e i cantieri.
In Calabria è necessario un nuovo Patto sociale per il lavoro e lo sviluppo che assuma la legalità come precondizione necessaria e partire dalla piattaforma della manifestazione del 16 novembre #calabriacambiapasso. La Cgil, come ha fatto in questi mesi e con la giusta autonomia, saprà essere da stimolo nel dare il proprio contributo di proposta. Lo farà il 12 aprile a Gioia Tauro con una iniziativa nazionale sul Sud e gli investimenti per superare il divario nel Paese, alla presenza delle regioni del Mezzogiorno e del segretario generale Susanna Camusso per presentare le proposte della Cgil per lo sviluppo, così come cercherà di fare in Calabria nella fase congressuale appena avviata, apportando anche proposte di autoriforma e cambiamento. Ci aspettiamo dalla politica calabrese un colpo di reni e un vero cambio di rotta che riparta dal lavoro e che riveda anche i costi del suo funzionamento (indennità,vitalizi), troppo elevati se messi in relazione alla condizione dei calabresi. Altimenti, come già avvenuto il 16 novembre, continueremo la mobilitazione.
Angelo Sposato è segretario generale della Cgil Calabria