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"Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". La storia di Stefano Cucchi, 31 anni, magro, faccia da "scugnizzo" di periferia, arrestato a Roma, nel Parco degli Acquedotti, il 15 ottobre del 2009, tradotto in carcere e mai più uscito vivo, è diventato un graphic novel, disegnato dal fumettista Toni Bruno e preceduto da uno scritto di Luca Moretti, che ripercorre la vicenda giudiziaria e umana del giovane (Castelvecchi, euro 12, pp. 113).
Come la canzone "Un blasfemo" di Fabrizio De André, narra di un uomo ucciso dalla forze dell'ordine "a forza di botte". Sono ben 51 i detenuti che si sono suicidati nelle nostre carceri dall'inizio dell'anno a oggi, queste le uniche morti "certe", sulle altre, come quella di Stefano, dovute alla violenza, alle percosse fisiche e psicologiche, troppe volte è calato il silenzio.
Questo libro a fumetti vuole fare proprio questo: denunciare, attraverso la storia di un "ragazzo come tanti", quello che i media spesso tacciono e le associazioni dei volontari denunciano da tempo, ovvero le difficili condizioni di sovrappopolamento e di mancanza di servizi e assistenza nelle carceri, che causa degrado, depressione e violenza, sia tra i detenuti che tra le guardie carcerarie.
La ricostruzione è incalzante, come il ritmo del racconto, i disegni si susseguono in una narrazione cinematografica e raccontano i momenti che hanno preceduto la morte del ragazzo, rendendo l'angoscia del lettore sempre maggiore, man mano che l'ingiustizia si compie. La scelta di un bianco e nero acquerellato rende ancora più suggestivo il racconto, nel quale i due autori hanno scelto di narrare la vicenda intersecando scene dal supplizio di Cristo con il calvario squallido, violento e terreno subìto dal giovane Cucchi (i lividi evidenti sul volto e sul corpo, sulla schiena una tremenda ferita, un occhio è uscito dall’orbita. Cristo morto sembra sceso dalla Croce: una cicatrice dal collo all’inguine, il segno dell’autopsia).
Ma quello che è successo a Stefano potrebbe essere raccontato in poche e disarmanti parole: lo hanno sorpreso con 20 grammi di hashish e lo hanno arrestato, come di rito. Poi lo hanno cominciato a picchiare. Lui non ha detto niente. Quando è arrivato al Sandro Pertini di Roma respirava ancora. Poco dopo è morto. I referti medici dicono che il paziente era poco "collaborativi", presentava ematomi ed ecchimosi su varie parti del corpo, rifiutava la reidratazione endovenosa e di nutrirsi… se prima non fosse riuscito a parlare con il suo avvocato.
I suoi genitori fuori non sono riusciti a vederlo, nonostante lo chiedessero da giorni. Il legale nemmeno.
A chiudere la narrazione un saggio di Cristiano Armati sulle vittime dell'Ordine Pubblico italiano: da Federico Aldrovandi, il 18enne morto a Ravenna a causa delle percosse di quattro agenti durante un semplice controllo in strada, a Riccardo Rasman, 34enne disabile psichico picchiato con, tra l'altro, un piede di porco da quattro poliziotti in casa sua e morto, legato a una sedia con manette e fil di ferro. Dal clochard milanese Giuseppe Torrisi, ucciso di botte da due rappresentanti dell'Ordine alla Stazione Centrale, a Manuel Eliantonio, un 22enne di Pinerolo morto in carcere ufficialmente "suicida", con la testa "gonfia come una palla da bowling", dirà la madre, per le botte prese in carcere.
Un testo che lascia l'amaro in bocca, la rabbia del cuore, la paura di brutti incontri. Ma anche tanta voglia di verità e giustizia.