Svolgere un convegno dal titolo “Sta per finire l’epoca delle multinazionali in paradiso (fiscale)?” pochi giorni dopo le rivelazioni sui cosiddetti Panama Papers può sembrare ironico, o fin troppo tempestivo. Caso a parte (come ovvio, il convegno era stato previsto da tempo, senza prevedere la forte coincidenza di cronaca), il tema è più che maturo e, come ha già ben riportato Rassegna nella sua puntuale cronaca (l’8 aprile), l’Ocse e il G20 hanno avviato il processo sul pacchetto Beps, per contrastare appunto l’erosione della base fiscale e lo spostamento dei profitti, da almeno due anni. La svolta politica è chiara. L’organizzazione parigina, che raggruppa le 34 economie di tipo “occidentale” più forti del mondo, si era finora preoccupata di come i governi dovessero garantire alle imprese multinazionali di non essere sottoposte a una “doppia tassazione”, nel paese d’origine e in quello dove operavano le loro attività economiche. Ora la prospettiva è completamente ribaltata: l’Ocse e il G20, quindi anche le economie emergenti fuori dal club delle potenze economiche “occidentali”, a partire dai Brics, si preoccupano di evitare la “doppia non tassazione” delle multinazionali.

Il riferimento è a quelle pratiche – si badi, per la maggior parte assolutamente legali – con cui le grandi imprese con attività in una molteplicità di paesi trasferiscono i prezzi “interni” e spostano i profitti tra consociate, in un infinito gioco di scatole cinesi, in modo da minimizzare il pagamento delle tasse. Sfruttando, in ciascuna giurisdizione fiscale, le agevolazioni, i vantaggi offerti, i buchi normativi e, più in generale, l’assoluta opacità del loro operato, ma anche delle relazioni tra le diverse amministrazioni fiscali. In una logica, finora prevalente, di concorrenzialità tra Stati nell’attrazione degli investimenti esteri. Solo alla fine di queste catene e di queste triangolazioni stanno i cosiddetti “paradisi fiscali”, i paesi cioè dove è facile (e facilitato) insediare imprese, anche solo i cosiddetti mailing box, le agevolazioni fiscali sono elevate e le aliquote fiscali assolutamente irrisorie. Accompagnato, il tutto, dalla più assoluta discrezionalità sui titolari di conti bancari e imprese.

Ma la croce, ahinoi, non può essere gettata solamente su Panama, o sulle isole Cayman. Fior fiori di paradisi fiscali si trovano in Europa (Belgio, Olanda, Lussemburgo, Isole Britanniche), o in qualche Stato dell’unione americana, come il Delaware. Nei suoi studi per il pacchetto Beps, l’Ocse ha in parte scoperto l’acqua calda: in tutti questi paesi, tanto più quanto sono più piccoli o minuscoli, balza immediatamente agli occhi la sproporzione tra i flussi di investimenti in uscita e il numero di aziende installate e il (la pochezza del) Pil. Dal canto loro, le imprese multinazionali, che hanno usato e stanno usando mezzi sofisticati quanto finanziariamente consistenti per contrastare il progetto Beps, si trincerano dietro la razionalità dei loro comportamenti: così come cercano di delocalizzare o impiantare fabbriche, uffici, reti di vendita nei paesi a più basso costo del lavoro, allo stesso modo non vedono cosa ci sia di male a insediare sede legale o qualche ufficio commerciale (quando sono veri) in paesi a bassa tassazione.

Le decisioni dell’Ocse e del G20 indicano la volontà di andare proprio su questo terreno: cambiare e coordinare, se non proprio armonizzare le regole fiscali globali e dei singoli paesi, per fare in modo che le imprese multinazionali paghino le tasse “dove si svolge la loro attività economica e viene creato il valore”. Come si può capire, a dichiarazioni politiche e lavoro operativo (in soli due anni) così impegnative devono ora seguire fatti coerenti e precisi, sia a livello di ogni singolo paese che di trattati bilaterali e di decisioni e trattati multilaterali. Certo i “ma” sono molti. Non solo per le resistenze di imprese e investitori e per il ruolo di governi “corsari”. Il fatto è, tanto per cominciare, che è la stessa legittimità del progetto a essere messa in discussione. Non tanto e non solo da parte delle “solite” Ong altermondialiste, ma da un numero significativo di paesi in via di sviluppo, che non riconoscono nell’Ocse e nel G20 le sedi in cui discutere e costruire un nuovo quadro fiscale globale che risponda agli interessi di tutti, a partire dai paesi più piccoli – che sono generalmente quelli più danneggiati dalle pratiche elusive delle multinazionali –, a differenza di quelli economicamente dominanti o, comunque, più forti.

Un tema che è venuto esplicitamente alla luce, nel luglio scorso, alla terza conferenza delle Nazioni Unite sulla finanza per lo sviluppo di Addis Abeba, dove almeno 77 paesi hanno chiesto che il comitato sulle politiche fiscali dell’Onu ampliasse il proprio spazio e il proprio mandato per definire e gestire una diversa politica fiscale globale e multilaterale. Una preoccupazione a cui l’Ocse sta rispondendo allargando quanto più possibile la consultazione di governi e di società civile di paesi fuori dalla cerchia Ocse-G20. Il risultato è che, a oggi, il progetto Beps coinvolge 59 paesi: qualcosa di più del gruppo “di testa”, ma ancora troppo poco. Senza contare i corposi problemi di merito, messi in luce dalle organizzazioni dei lavoratori in seno al comitato consultivo presso l’Ocse, il Tuac, dal raggruppamento dei sindacati L20 (“interfaccia” del G20), dalle Ong e dagli organismi indipendenti (come l’Icrict, presentatosi per la prima volta al Festival dell’economia di Trento del 2015, e che vanta tra i suoi promotori Joseph Stiglitz).

Il principale di questi problemi risiede nel fermo rifiuto delle multinazionali, e di quei governi Ocse in cui molte di esse hanno origine, anche solo di rimettere in discussione il principio della “indipendenza delle parti”. Il rifiuto cioè a far considerare l’impresa, a fini fiscali e non solo, come un tutt’uno nelle sue operazioni e nella sua creazione di valore, con una tassazione unitaria da ripartire poi tra i paesi che ospitano le diverse concociate, controllate o filiali. Al contrario, ciascuna di esse viene considerata un’entità a sé e le transazioni interne, che costituiscono la maggior parte della reale attività economica e produttiva delle multinazionali e gran parte dei flussi di import ed export e dei movimenti di capitali dei paesi che le ospitano, tanto più di quelli economicamente più deboli, diventano veicolo di operazioni finalizzate alla riduzione del carico fiscale. Così, i passi avanti sulla tracciabilità del peso reale delle politiche di trasferimento dei prezzi interni, per renderli effettivamente aderenti alla realtà “di mercato” e al reale insediamento dell’impresa in ciascun paese, comporteranno un enorme aumento delle già ingenti operazioni da controllare e monitorare, con difficoltà estreme per le amministrazioni fiscali dei paesi più deboli.

Una delle acquisizioni più importanti del pacchetto, la rendicontazione paese per paese, che dovrebbe ancor più consentire di verificare lo stato reale delle attività in ciascuna realtà nazionale, anche per la loro tassazione, è giustamente oggetto di critica dei sindacati e delle società civile per l’alta soglia di fatturato (750 milioni di euro) e per la mancanza di pubblicità dei dati, riservati al rapporto esclusivo tra imprese (e loro agguerriti consulenti) e amministrazione fiscale di ciascun paese. La Commissione europea, proprio in questi giorni, sta per varare la bozza di direttiva su questo punto, aggiungendo un ulteriore elemento critico: le multinazionali basate nell’Unione avranno obbligo di rendicontazione per ciascun paese europeo, ma solo nel loro insieme per i paesi extracomunitari in cui operano.

Insomma, per sbarrare alle multinazionali la strada dei paradisi fiscali – o, meglio, di un’ampia elusione fiscale – il lavoro è ancora lungo, pieno di ostacoli “tecnici”, ma soprattutto politici e oggetto di un fortissimo scontro di potere tra le multinazionali che non vogliono pagare di più e la gran maggioranza dei cittadini che chiede di avere finalmente un minimo di equità fiscale. Non serve molta immaginazione per rendersi conto che le grandi imprese internazionalizzate giocano una pesante concorrenza sleale contro le piccole imprese locali, che sono soggiogate al loro controllo produttivo e al monopolio di mercato e che pagano normalmente aliquote fiscali di molto superiori. Dall’altra parte, i soldi sottratti a casse statali sempre più esangui – per la crisi economica, per le politiche di incentivazione a imprese e investimenti, per il salvataggio della finanza bancarottiera – si traducono immediatamente in ulteriori tagli alla spesa sociale e agli investimenti pubblici per infrastrutture o per servizi essenziali.

In questi stessi giorni si può trovare sul web uno spot del governo australiano che mostra provocatoriamente la “sponsorizzazione” da parte di note multinazionali alle buche sulle strade, alle code davanti ai presidi sanitari, all’aumento delle rette ai college, conseguenze tutte del mancato o super ridotto versamento fiscale.

Leopoldo Tartaglia, politiche europee e internazionali Fondazione Di Vittorio