L’Italia soffre di molte anomalie rispetto alle più avanzate democrazie europee. Una delle più rilevanti riguarda il tema delle relazioni sindacali. In nessun paese europeo accade infatti che non si sappia bene quale sia l’efficacia giuridica di un contratto collettivo non sottoscritto da tutti i sindacati rappresentativi, che sia incerta la natura e la composizione delle rappresentanze sindacali aziendali, che appaia possibile espellere dalla rappresentanza in azienda il sindacato che dissente dal contenuto di un accordo e, pur essendo rappresentativo, non lo sigla.

INFOGRAFICA: I SISTEMI EUROPEI

Quanto accaduto alla Fiat in questi anni è il sintomo più vistoso di un’anomalia che è una delle principali cause all’origine del disordine e della inefficienza del sistema delle relazioni sindacali. Ha fatto dunque bene Susanna Camusso, nel suo recente intervento sul Corriere della sera, a porre il problema di una regolazione della rappresentanza. La questione si trascina da tempi ormai immemorabili, da quando risultò impraticabile l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Per un lungo periodo il problema fu oscurato dall’indubbia rappresentatività delle maggiori confederazioni e dal loro rapporto unitario.

Ma la crisi, prima, dell’unità sindacale e poi la crescente disarticolazione del sistema hanno reso non più tollerabile questo vuoto normativo. La prima frattura di quello che è stato chiamato “l’ordinamento sindacale di fatto”, fondato sull’autonomia dei soggetti negoziali, si è verificata, com’è noto, nel 1984 ai tempi della rottura della federazione unitaria Cgil, Cisl, Uil e delle divisioni sul taglio della scala mobile. Poi il protocollo del luglio 1993 sembrava avere ricomposto un quadro razionale, con le regole sulla politica dei redditi da un lato e sul sistema contrattuale e le rappresentanze unitarie in azienda dall’altro.

Quell’accordo conteneva anche un impegno a mettere mano finalmente a una legge sull’erga omnes dei contratti nazionali e sull’efficacia giuridica di quelli aziendali. Ma l’occasione fu persa, cosicché ci si ritrovò anni dopo in una sorta di giungla delle relazioni sindacali, a cui non fu affatto estranea la nuova e lunga serie di accordi separati nella stagione berlusconiana, a partire dall’effimero “Patto per l’Italia” del 2002 al cosiddetto “accordo quadro sul nuovo sistema contrattuale” del gennaio 2009, fondato sull’idea di un decentramento negoziale spinto poi rivelatosi illusorio a fronte della crisi e della recessione.

Basti ricordare che quest’ultimo accordo fu firmato dal governo come “parte”, ovvero come datore del pubblico impiego, salvo poi dichiarare da parte dello stesso governo il blocco pluriennale della contrattazione nel pubblico impiego, con buona pace dell’enfasi attribuita alla contrattazione decentrata come strumento di incentivo della produttività.

A seguire, la vicenda Fiat, i cui passaggi più rilevanti possono essere così riassunti: prima il Lingotto impone un accordo a Pomigliano con un insieme di deroghe al contratto nazionale di lavoro illegittime anche ai sensi dell’accordo (separato) per l’industria dell’aprile 2009; quindi, per legittimare quegli accordi, viene inserita nel contratto nazionale dei metalmeccanici una nuova norma più permissiva sulle “deroghe”, fondata sul meccanismo del silenzio-assenso e non più su una procedura autorizzatoria ex ante; ciononostante la Fiat esce da Confindustria e quindi dal contratto nazionale dando vita a un’autonoma contrattazione di settore, il cui codicillo essenziale sta nell’espulsione della Fiom dalla rappresentanza sindacale in azienda, in quanto non firmataria del contratto.

A questo insieme di azioni fanno poi da corollario altri comportamenti a dir poco censurabili, quale quello di assumere nella nuova fabbrica di Pomigliano circa 2.000 lavoratori senza che nessuno di questi fosse iscritto alla Fiom, il che ha portato a una condanna della Fiat per discriminazione, con il conseguente obbligo di assumere una percentuale di lavoratori proporzionata agli iscritti alla categoria della Cgil. La Fiat ha poi reagito dichiarando la mobilità, ovvero il licenziamento di altrettanti lavoratori già assunti, con un atto esecrabile generalmente condannato. Ma quanto sta accadendo alla Fiat è solo la punta dell’iceberg. Accadono altre cose dal sapore francamente surreale. Tra queste, il fatto che Federmeccanica ha aperto le trattative sul rinnovo del contratto nazionale escludendo la Fiom dal confronto negoziale.

Nel frattempo, tuttavia, si dovrebbe negoziare a livello confederale un cosiddetto “accordo sulla produttività”, che, a prescindere dai contenuti di merito, può funzionare solo sulla base di un accordo di sistema tra i principali attori. Ma questa è appunto la condizione essenziale che manca. Tanto più in quanto sopravvive il famigerato articolo 8 della legge n. 148 del 2011, ultimo colpo di coda di un governo sistematicamente impegnato a isolare la Cgil e secondo il quale sarebbero ammissibili contratti collettivi aziendali e territoriali derogatori sia dei contratti nazionali di lavoro che delle discipline di legge. Una sorta di diritto del lavoro “fai da te”, differenziato a livello aziendale e territoriale, sicuramente illegittimo sul piano costituzionale.

La norma è stata varata, guarda caso, poco dopo che Cgil, Cisl e Uil avevano stipulato, il 28 giugno 2011, un accordo di segno del tutto diverso, fondato sulla centralità del contratto nazionale di lavoro e su regole definite in ordine all’efficacia dei contratti aziendali. A tutto questo si aggiunga che il successivo governo “tecnico” ha promosso una complessa legge di riforma del mercato del lavoro che contiene a sua volta una serie di rinvii alla contrattazione collettiva di vario livello ed è priva di ogni criterio di validazione dei suddetti soggetti negoziali.

Che si deve fare dunque? Che vi sia la necessità di un nuovo patto sociale tra le forze produttive è indubbio: si tratta di uno strumento essenziale, da collegare a coerenti politiche di intervento pubblico, per contrastare la fase recessiva che stiamo attraversando, il basso utilizzo della capacità produttiva potenziale a seguito della caduta della domanda, interna ed estera (basti pensare al settore auto) o i differenziali in termini competitivi determinati da costi strutturali, a partire dall’energia e dal rispetto dei vincoli ambientali (si veda il caso delle acciaierie, a partire dall’Ilva di Taranto). È evidente tuttavia che nessun passo avanti si può fare, sulla produttività e su altro, se non si mette ordine al sistema delle relazioni sindacali, a partire da tre questioni cruciali: l’accertamento della rappresentatività dei sindacati, i procedimenti di validazione dell’efficacia dei contratti collettivi, il diritto di ogni sindacato rappresentativo di partecipare alle trattative e di costituire proprie rappresentanze nei luoghi di lavoro, a prescindere dall’avere o meno sottoscritto precedenti contratti.

Dello scioglimento di questi nodi deve farsi carico l’auspicabile “patto sociale” in discussione: per esempio, traducendo in accordo interconfederale le regole già previste, in materia, dall’accordo tra Cgil, Cisl e Uil del 28 giugno 2011. Di questo dovrebbe occuparsi anche il governo, invece che usare strumentalmente la leva della detassazione degli incrementi salariali a livello aziendale come strumento di volta in volta rinnovabile e non come stabile disciplina. Nel quadro descritto infatti anche le regole pattizie, come quelle stabilite dal 28 giugno, mostrano scarsa tenuta.

Perciò sarebbe necessario un primo, parziale, intervento di legge, che si potrebbe adottare già in questi mesi che ci separano dalle elezioni, rinviando la complessiva soluzione del problema alla prossima legislatura, quando il tema della rappresentanza e della democrazia sindacale dovrà essere affrontato assieme a quello della democrazia economica, ponendo in virtuosa connessione l’attuazione dei principi di cui agli articoli 39 e 46 della Costituzione. Questo primo e “leggero” intervento di legge dovrebbe riguardare tre specifiche questioni, che attengono agli aspetti più critici delle relazioni contrattuali: l’efficacia giuridica dei contratti collettivi aziendali, da subordinare all’approvazione maggioritaria di rappresentanze elette da tutti i lavoratori, le procedure del ricorso a referendum in caso di dissenso espresso da un sindacato rappresentativo o da una significativa percentuale dei lavoratori interessati e il diritto a costituire rappresentanze aziendali in capo alle organizzazioni che superano un soglia di rappresentatività nella media tra iscritti e voti riportati in libere elezioni.

Le soluzioni indicate nell’accordo del 28 giugno potrebbero quindi essere recepite in legge in termini persino testuali. Né potrebbero negarsi al caso di specie i requisiti della “urgente necessità” che autorizzano il ricorso allo strumento del decreto legge. In questo modo, non si interverrebbe direttamente sull’aspra situazione conflittuale determinatasi alla Fiat, che esige piuttosto misure del tipo moral suasion di cui certo il governo e le più alte autorità della Repubblica non difettano, ma si introdurrebbe una prima regolazione della rappresentanza sindacale che corrisponde indubbiamente agli interessi generali del paese.

* Professore di Diritto del lavoro all’Università Ca’ Foscari di Venezia