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Quest’anno, per la prima volta, l’Istat ha raccolto le principali statistiche sui giovani in un’unica infografica, per descrivere in modo efficace e immediato le caratteristiche occupazionali, sociali e culturali di quella parte della popolazione italiana compresa tra i 15 e i 34 anni. E, in effetti, da questa fotografia si possono desumere molte verità non scontate e, più o meno deliberatamente, trascurate o mistificate. Il focus è il lavoro. Intorno alla condizione occupazionale si stagliano tutte le altre statistiche sull’autonomia dalla famiglia d’origine, gli stili di vita, i consumi culturali e la propensione alle nuove tecnologie dei giovani.
In Italia, su 10 giovani, 3 sono disoccupati (a vario titolo), 3 studiano e 4 sono a lavoro (di cui un precario). La prima domanda che viene spontanea è: di chi si deve occupare il governo e di chi il sindacato? In dettaglio, tra i giovani che non lavorano ci sono disoccupati, inoccupati, sottoccupati e altra forza di lavoro potenziale, compresi inattivi e “scoraggiati”. Va poi sottolineato come le persone tra i 15 e i 29 anni che non hanno un impiego e non sono inseriti in percorsi formativi (i cosiddetti Neet) siano passate dal 18,9 per cento nel 2007 al 26 nel 2013. Per tutti questi giovani, dunque, la priorità nell’agenda politica e sindacale è l’occupazione.
Creare lavoro. Di fronte a queste statistiche appare inutile ogni intervento legislativo sul mercato del lavoro in assenza di misure per la creazione di posti di lavoro. Anzi, come dimostrano i dati (dell’Istat come dell’Ocse), tutti gli interventi che deregolano il mercato del lavoro e riducono i diritti – compresi i più recenti, come la Legge Fornero o il decreto Poletti – comportano maggiore disoccupazione e sostituzione del lavoro stabile con lavoro precario. Di conseguenza, nessun aumento di produttività, né di competitività per le imprese italiane. Il Jobs Act, purtroppo, va nella stessa direzione. Non si può agire sui costi per affrontare la crisi e recuperare il terreno perduto in due decenni sul versante dell’innovazione e dello sviluppo. Non c’è svalutazione competitiva, monetaria, fiscale o del lavoro, che possa attrarre capitali dall’estero o indurre le imprese nostrane a investire. Vanno programmati e realizzati investimenti pubblici per moltiplicare investimenti privati. Va recuperato l’obiettivo della piena e buona occupazione. Non c’è ripresa senza lavoro. Bisogna che il governo si assuma le sue responsabilità nel creare lavoro e futuro.
Gli stessi ragionamenti valgono per gli studenti, futuri lavoratori. Oltre 3 milioni e mezzo di under 25 studia; a cui si aggiunge un altro mezzo milione di persone tra i 25 e i 34 anni che completa il percorso universitario o post-laurea. In proporzione, i giovani italiani che studiano o che hanno conseguito almeno un diploma di maturità sono di meno rispetto ai loro coetanei degli altri principali paesi europei, ma risultano mediamente molto più istruiti (diploma, laurea, post-laurea) dei loro connazionali più anziani. Bisogna dare risposte all’offerta di competenza di questa generazione. In Italia sono 20 anni che la mobilità sociale è ridotta al minimo. La crisi ha dato un duro colpo alle aspettative di impiego, anche per i più istruiti. Non a caso, il tasso di disoccupazione giovanile è raddoppiato dall’inizio della crisi e ha registrato record mai visti, soprattutto nel Mezzogiorno (dove ha superato il 60 per cento). Anche per questo oltre 26.000 giovani, ogni anno, lasciano l’Italia.
E poi ci sono ci sono i giovani che lavorano. Per questi le condizioni materiali e le aspettative cambiano profondamente. Circa un terzo dei lavoratori tra i 16 e i 34 anni è precario, ha un contratto tipico, ma a termine (tempo determinato, apprendistato ecc.), oppure un contratto atipico (collaborazione, associazione in partecipazione ecc.), oppure una partita Iva individuale, spesso involontaria. Ciò significa che per questi giovani la disponibilità di reddito, la certezza di un impiego, l’accesso al credito, la capacità di programmazione risultano significativamente più limitati dei loro colleghi a tempo pieno e indeterminato.
Certo, è più facile trovare tra i cosiddetti lavoratori “standard” un iscritto al sindacato, piuttosto che tra i lavoratori precari (anche se la cosiddetta “copertura” contrattuale, almeno per tutti i precari tipici è prevista). In questo il sindacato è senza dubbio rimasto indietro e, non a caso, la Cgil si è impegnata a recuperare terreno, nella rappresentanza, nelle tutele, nel welfare e nella contrattazione. Purtroppo, le battaglie contro quella legislazione liberista volta a denormativizzare e decollettivizzare il lavoro, pur importanti, non sono bastate a riequilibrare i rapporti di forza. Ora più che mai bisogna lottare per difendere i diritti fondamentali (a partire da quelli di ispirazione costituzionale contenuti nello Statuto dei lavoratori), estendere le tutele, raccogliere la nuova “domanda politica”, elaborare proposte innovative e includere le nuove generazioni di lavoratori nella contrattazione collettiva. Non c’è più tempo da perdere.
La globalizzazione dei capitali, l’allungamento della “catena del valore” e la finanziarizzazione dell’economia pongono nuove sfide alla politica e al sindacato. Non bisogna mai dimenticare che in Italia, negli ultimi 20 anni, l’alleanza tra profitti e rendite è stata realizzata a scapito di tutto il lavoro, superando anche la stessa definizione di dualismo del mercato del lavoro, troppo spesso ancora mal evocata. Stagnazione dei salari reali e della produttività hanno portato la più bassa variazione del Pil e dell’occupazione di tutte le economie avanzate del pianeta. E ciò avviene prima, durante e – secondo tutte le previsioni istituzionali – anche dopo la grande crisi che stiamo attraversando. Sempre più lavoratori diventano working poors, a prescindere dalla tipologia di impiego e dall’età. Si può uscire da questa crisi del modello di sviluppo, nazionale e sovranazionale, solo attraverso nuova occupazione e maggiori salari. Per questo la priorità è il lavoro. Per questo alle nuove generazioni è affidato l’onere del riscatto e l’onore della Storia.