Con l’enciclica Caritas in veritate l’attuale pontefice imposta un lavoro ambizioso per definire la collocazione eticopolitica della Chiesa nell’età della globalizzazione. È esplicita nel testo la demarcazione tra il tempo nuovo dell’economia globale, che tutto destruttura e confonde, e il tempo ormai concluso dello Stato sociale, sul cui ruolo positivo nella promozione umana si erano soffermate le precedenti riflessioni dei pontefici postconciliari. La preoccupazione di Ratzinger è quella di tracciare i nuovi fondamenti della dottrina sociale della Chiesa nell’età del postmoderno che, con la dura crisi economica globale in atto, pone la necessità di “una rivalutazione del potere pubblico” dopo la fase del liberismo. Tuttavia l’enciclica contiene una serie di contraddizioni che cercheremo di individuare.

La carità e la verità sono per il papa le nozioni essenziali per la comprensione del mondo odierno. Mentre la ragione, concede Ratzinger, arriva pure a concepire l’idea di eguaglianza, e a riconoscere la dignità politico-giuridica dei soggetti, solo la carità e la fede riescono ad attingere alla dimensione ben più superiore della fraternità. Se la ragione, come attesta l’enciclica, ha la possibilità di fondare l’eguaglianza, è contraddittorio però asserire che “i diritti umani rischiano di non essere rispettati perché vengono privati del loro fondamento trascendente”. Affermare che la ragione politica ha “sempre bisogno di essere purificata dalla fede” è solo una dogmatica asserzione che non tiene conto dell’autonomo sviluppo dei diritti fondamentali su un ceppo del tutto laico.

Colpisce, nel recupero della carità e dell’universalismo, la preoccupazione ecclesiastica di “difendersi dai tentativi di omogeneizzazione culturale”. L’apertura alla carità convive con la chiusura nel recinto di una fede che rivendica per sé l’assoluto e si sente assediata dalla contaminazione con altre culture.

Quando Ratzinger parla del “dialogo interculturale” rimarca che esso per essere positivo non deve minacciare l’identità di fede. In nome dell’assoluto che la fede rivendica per sé, l’enciclica combatte contro “l’eclettismo culturale” che pretende di non riconoscere un diverso grado di verità alle varie credenze. Il dialogo vero per la Chiesa non è quello tra credenze che si attestano su un piano di parità, ma è quello che suppone una gerarchia tra i credi e quindi si mostra disponibile a “trovare la misura in una natura che trascende le culture”. Il metro delle fedi ovviamente è in mano alla Chiesa perché se tutte le fedi sono culture tra loro equivalenti “l'umanità corre nuovi pericoli di asservimento e di manipolazione”. Ed è come suprema portavoce del creato che la Chiesa rivendica il suo ruolo pubblico quale efficace argine verso gli atteggiamenti neopagani, il sincretismo di percorsi micro-religiosi.

Quale custode autorizzata della “rivelazione cristiana sull’unità del genere umano”, la Chiesa pretende che la sua “interpretazione metafisica dell’humanum” sia accolta in ogni spazio pubblico. Per l’enciclica, in pubblico bisogna riconoscere la vera religione dal momento che nello Stato “la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali”.

Lo scritto di Ratzinger assume un tono paternalistico verso le altre religioni allorché afferma che “la fede cristiana, che si incarna nelle culture trascendendole, può aiutarle a crescere”. L’affermazione della metafisica come sapere superiore legato alla fede conduce anche al naufragio del tentativo di conciliare fede e ragione. Ratzinger afferma che “la carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall’interno”. Subito dopo però si affretta a negare l’autonomia del conoscere che non può occultare il dono divino con le nozioni di caso ed evoluzione. “Il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza” e va subordinato alla carità, alle verità di fede, alla “dimensione sapienziale” che ricorda il peso ineludibile del peccato.

La pretesa dell’enciclica è quella di prospettare un “dialogo tra le scienze e la teologia” per non arrecare “danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche allo sviluppo dei popoli”. Il sapere empirico però potrebbe volentieri fare a meno dell’apporto della teologia che rivendica un redivivo ruolo regale. Quella che l’enciclica chiama “consistenza ontologica dell’anima umana” non è un mero assioma metafisico contro il disincanto indotto dall’assolutismo della tecnica, ma un atto di valenza pubblica che conforma la legislazione in campo bioetico, sessuale, fecondativo. Proprio la bioetica diventa per la Chiesa cruciale poiché “oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”. Nei paesi si diffonde una “mentalità antivitalista” e perciò la contraccezione diventa il principale nemico della Chiesa. La vita come dono che si apre alla trascendenza sostituisce la società reale dissolta a caritas e a metafisica della vita. Il dono, la gratuità sono riproposti come adeguati correttivi rispetto alle negazioni della vita e alle inclinazioni egoiste di un’economia orientata al profitto. Contro la pretesa di governare i processi sociali con un’autonoma logica di azione, “la sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tener presente il peccato originale”.

Non le relazioni sociali di dominio e dipendenza, ma il peccato opera anche dentro i congegni dell’economia. Il problema non è insomma quello di trovare concrete forme di libertà contrastando il dominio di forze reali, ma quello di riconoscere la presenza del male legata al peccato. Contro le “forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale”, la Chiesa rilancia il suo ruolo di argine morale al peccato metafisico. Il papa contesta per questo la proliferazione di un’infinità di codici etici che non sorreggono affatto le spigliate pratiche finanziarie (il testo si scaglia contro “un abuso dell’aggettivo etico” che appare persino “funzionale ai sistemi economico-finanziari esistenti”). Non i codici etici indifferenziati recuperano anelito morale, ma la nozione di bene comune (capace di conciliare la ragione economica e la coesione sociale, il profitto e la valorizzazio ne del capitale sociale, la concorrenza e la fiducia, le regole e il “senso” del produrre, la tecnica e le dinamiche collaborative). Da qui discende il primato dello spirito sull’esistenza sociale, dello sviluppo morale sul “supersviluppo” che postula l’amputazione di “una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale”.

Quella che il papa chiama “democrazia economica” non è la contestazione del mercato . La comunità fraterna o “unità del genere umano” è il semplice frutto della “convocazione della parola di Dio-Amore”. La logica del dono, il principio di gratuità sono invocati in luogo del conflitto. Al mercato che opera con il contratto e lo scambio di prestazioni occorre aggiungere un tocco di etica con il dono. Il mercato come strumento è buono, andrebbe solo integrato con la coscienza morale, con l’amicizia. La proiezione alla socialità (con aperture al consumo solidale, alla microfinanza, alla cooperazione all’acquisto, al microcredito) non può spingersi oltre perché cruciale è che “l’uomo rientri in se stesso per riconoscere le fondamentali norme della legge morale naturale che Dio ha inscritto nel suo cuore”. Insomma, la razionalità economica deve continuare (la morale deve procedere “senza sminuire la razionalità economica intrinseca all’atto dell’acquistare”), alla fede tocca solo rammentare all’abitatore del mercato che ha un’anima e deve guardare nel suo cuore.

Certo, i migranti sono sfruttati (“tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro”), i diritti dei lavoratori conculcati (con la deregolamentazione generalizzata “l’incertezza diventa endemica”), le organizzazioni sindacali minacciate (i governi “limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati”). Nessun rimedio si trova però nel conflitto sociale, ma nel bene comune che scaccia la contesa perché in fondo tutti hanno un cuore. L’enciclica trascura che è proprio della logica del mercato spezzare i legami di reciprocità, l’ingerenza di domande di senso. Chiederne il ripristino suona come esibizione edificante.

La proposta di un’economia “istituzionalizzata eticamente” costruisce legami fragili sul vulcano acceso del mercato. Né la politica (l’enciclica ammonisce di “non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato”) né l’autonomia del lavoro (non si deve “sposare la tesi di un avvenuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla centralità del consumatore”) sono visti come controtendenze efficaci al dominio del profitto. Anche se la crisi finanziaria globale restituisce peso regolativo allo Stato, la soluzione agli enigmi spetta al principio di gratuità. Per contenere lo strapotere di “una classe cosmopolita di manager” occorre non il conflitto ma “l’impresa come comunità”e un’etica sociale imperniata sul dono senza contropartite. Quando il papa ammette che tali forme di altruismo “non si possono disporre per legge” ne rileva però la sostanziale impoliticità. Il papa dell’eterno mostra una ricaduta nel congiunturale quando propone una versione dello “Stato sussidiario” e “poliarchico” articolato su più livelli spaziali. Territorio e tradizione, profitto e fraternità, identità e famiglia, denaro e cuore sono i contenuti di una dottrina sociale di stampo quasi “leghista”.