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La discussione sulle pensioni in questo inizio di legislatura è partita con il piede sbagliato. Dalle affermazioni roboanti in campagna elettorale (“cancelliamo la legge Fornero”) si è passati a un “contratto” fra le forze di Governo che fa leva su alcuni temi specifici, come la “quota 100” o i “41 anni”. Una proposta che sui media è stata poi precisata nei dettagli e depotenziata nella sua portata da fonti considerate interpreti autorevoli della volontà politica di questa maggioranza di Governo.
Le considerazioni che si potrebbero fare al riguardo sarebbero tante. Sarebbe innanzitutto opportuno che il Governo precisasse le sue reali intenzioni, a cominciare dai provvedimenti che intende inserire nella prossima legge di bilancio. Con l’auspicio che si possa sviluppare un confronto sindacale, anche per evitare quei madornali errori del passato, quando la fretta e l’atteggiamento autoreferenziale della politica hanno determinato danni rilevanti, come appunto la legge Fornero o molti aspetti del Jobs Act.
In ogni caso gli interventi di cui si parla sono parziali e limitati da una serie di vincoli: con i requisiti contributivi che vengono ipotizzati verrebbero esclusi in larga misura le donne, i lavoratori delle aree più deboli del paese, chi svolge lavori discontinui. Ma anche chi ha avuto periodi di cassa integrazione, disoccupazione e malattia. In molti casi, quelli rientranti nell’Ape sociale ad esempio, con queste nuove ipotesi le possibilità d’accesso al pensionamento verrebbero addirittura peggiorate.
Le misure andrebbero invece collocate in un contesto diverso, perché sarebbe sbagliato rimuovere dalla discussione il tema di una nuova legge sulle pensioni, che superi strutturalmente l’impianto della Legge Fornero, e che si basi su un sistema previdenziale pubblico solidaristico che unifichi le generazioni e le diverse condizioni lavorative.
Il perno di questa riforma strutturale dovrebbe essere la flessibilità in uscita, che si può conseguire attivando più strumenti, in particolare dando al lavoratore la possibilità di poter scegliere quando andare in pensione, partendo dai 62 anni, considerando che ormai la quota contributiva è diventata prevalente nella posizione previdenziale e quindi il rendimento pensionistico è commisurato alla permanenza in attività.
Nella prospettiva il sistema pensionistico contributivo andrebbe corretto con elementi solidaristici e di equità, in particolare riconoscendo la diversità dei lavori in termini di gravosità, il lavoro di cura e la particolare situazione delle donne (attraverso la proroga di opzione donna ma non solo) e il lavoro povero e discontinuo, che purtroppo riguarda in misura rilevante i più giovani. In questo quadro vi è anche il tema dei 41 anni di anzianità, senza però restrizioni e legami con la speranza di vita.
Questo disegno riformatore complessivo, che dovrà ricomprendere anche le questioni aperte relative alla previdenza integrativa, la separazione assistenza/previdenza e la rivalutazione delle pensioni in essere, costituisce la base di un possibile intervento organico, che trovi in se la propria sostenibilità economica e sociale, ora e in prospettiva. Questa è la sfida che la Piattaforma unitaria del sindacato lancia alla politica e, in particolare, al Governo.
Roberto Ghiselli è segretario confederale nazionale della Cgil