Guardo la mia tazza di tè. Quel dannato microonde ha reso l’acqua così rovente che il mio tè nero ha sfrigolato nella bustina mentre lo immergevo. E dopo essermi scottato la lingua per l’impazienza non mi resta che aspettare che novembre si faccia valere e sconfigga la porcellana della tazza in un tempo ragionevole. Nel frattempo mangio un biscotto di riso ricoperto da un invitante strato di glassa al mirtillo. Non è esattamente come fissare una tazza di caffè mezzo vuota nella hall dell’Hollywood Hawaiian Hotel enumerando mentalmente tutti i salatissimi Margarita di Los Angeles che ho bevuto la sera prima.

Ma, insomma, un certo gusto bohème lo trasmette comunque. Non è come aspettare il Big One, o guardare il fiammeggiante profilo di Melancholia che brucia in lontananza nel cielo, e attendere che schianti questo nostro porco mondo, ma insomma, ci siamo capiti. I tetti rossi di Torino, le sue foglie morte d’autunno, i pomeriggi al cinema Romano, il biglietto per Il lago dei cigni al Teatro Regio, l’attesa a giorni di un’amica elegantissima con cui visitare una mostra mercato d’arte contemporanea, con tutti gli orrori alla moda di cui il direttore artistico vorrà dotarsi, tutto questo, comunque lo si guardi, è abbastanza decadente e grondante dolore, e spleen e precarietà, da sopperire alla mancanza di Stati Uniti, di mal d’Africa, di guerre mondiali. Enumerare i cliché della mia vita non mi salverà. E non serve io dica di non voler essere salvato, non serve che scriva che la salvezza mi sembra solo un’arnica psichica del nostro senso del ridicolo, il nascondiglio concettuale entro cui si annida il cadavere del nostro corpo vivo.

Ci dovrebbe essere stile anche nella morte. Se fossi uomo capace di preghiere, cosa che sono naturalmente, nonostante finga il contrario, pregherei perché di me non trapeli nessuna verità neanche nella morte. Ma io non sto morendo, né flirto con quell’idea della morte cui piace ai giovani accostarsi, dediti come sono a baloccarsi con l’idea di una morte romantica, una trappola semantica che non mi appartiene.

L’unica gabbia che mi concedo, che poi è anche l’alcova dentro cui mi acciambello, è la sedimentazione millenaria dei cliché, l’unica bellezza possibile della vita. E mentre me ne sto qui ad ascoltare una riproduzione mediocre di un grande classico di Warren Zevon, sbirciando sul sito di un fotografo a me caro di nome Giacomelli, tento di dar forma a un racconto di tre cartelle che dovrei consegnare domani a una rivista. Quello sciagurato del mio agente, quel porco rosso, quella lucertola pelata travestita da stratega mi ha incastrato in quest’impiccio. Un racconto sul tema del lavoro. Una marchetta, per due lire. Uno di quei qualcosa che uno scrittore fa perché li deve fare. Soprattutto perché non è King, non è Wallace, non è un sacco di altra brava gente anche italiana che è riuscita a spacciare le sue cartacce da due soldi, i suoi sciovinismi in cambio di diritti d’autore con cui campare di rendita per i prossimi cinquant’anni. Il lavoro.

Ma che diavolo. Dovessi dire quel che so sul lavoro, quel che penso del lavoro finirebbero per non comprarmi il racconto. Il lavoro. Come si fa a declinare un tema così ampio in tre cartelle? Me ne servirebbero trecento. Ma poi mi dovrebbero pagare molto di più. E lo leggerebbe ancora meno gente. Che sia maledetto quella testa pelata, quell’approfittatore, quel buzzurro. Il massimo che posso fare è parlare del mio lavoro. Potrei iniziare il tutto con una descrizione un po’ poetica, rubando qua e là da altri libri, scartabellare se nel mio diario c’è una frasetta o due che possano andar bene e poi buttarmi sulla metanarrazione che secondo quel satrapo con le bretelle del mio agente da un paio d’anni è tornata di moda. Ma come lo finisco? Dunque IO, che è il protagonista, deve scrivere un racconto che non ha voglia di scrivere, la butta sull’autobiografismo metanarrativo e alla fine, in un’apoteosi di struggimenti, sciorina qualche fregnaccia sul lavoro dello scrittore e consegna il racconto a questo mondo editoriale italiano che lo disgusta moltissimo ma in cui alla fine vuole a tutti i costi star dentro. Niente che non avrebbe potuto fare anche Ammaniti. O che non abbia già fatto. Nel frattempo il tè si è effettivamente raffreddato e i biscotti sono finiti.

Non resta che accendersi un’altra sigaretta e attaccare il condizionatore per contrastare il freddo dato dal lusso di voler tenere la finestra aperta. Devo smetterla di domandarmi quando verrà la guerra, quando questo mondo limaccioso verrà spazzato via da una tragedia. Mi dico di godermi la crisi, e il clima di insana precarietà che serpeggia fra le masse di annoiati e donnaioli e studenti e parassiti d’Europa. Quello che gli europei non hanno capito, secondo Paul Kennedy, e che i cinesi e gli asiatici in generale sembrano aver fin troppo chiaro, è che il mondo che noi conosciamo è destinato a deflagrare e ridefinirsi in una guerra mondiale. E mentre noi ce ne stiamo a rimirare i geniali prodotti di quel dannatissimo hippy ormai defunto di Steve Jobs, credendoli l’apice e la cifra con cui misurare il progresso umano, un cambiamento epocale come fu il Cinquecento sta per manifestarsi nel pieno della sua violenza.

Potrei forse allora scrivere un racconto sul lavoro di un militare di professione? Magari con una bella riflessione finale sull’abominio della guerra e sulla malvagità degli spietati cinesi rispetto alla rispettabile etica europea. Sarebbe un successo senz’altro. Una delle mie più grandi sfortune, o fortune, a sentire quel satiro fannullone del mio agente, è quella di esser diventato uno scrittore d’un certo rispetto dopo aver fatto una marea di umili lavoretti. E di avere nel mio carniere di relazioni un bel po’ di amici che s’occupano d’altro che non sia il mondo dei salotti letterari (che esiste, esiste eccome, non vi crediate).

Secondo quel maneggione, erede di una piccola fortuna oltre che di una calvizie precoce che lo fa sembrare di vent’anni più vecchio di me, posso trarre beneficio da queste frequentazioni “normali” e avere il polso della situazione. Basta pensare ai suoi suggerimenti per questo racconto: 1) l’amico pompiere precario che si vede decurtare un terzo dei giorni di lavoro del 2012 in seguito all’ultima manovra finanziaria; 2) l’amico metallurgico che durante un turno di notte ha schiacciato il piede di un suo collega e ha dovuto subire un interminabile processo perché pare che metà personale stesse usando i muletti in luogo di autoscontri; 3) l’amico laureato a pieni voti a Bruxelles che scarica e carica come un facchino per un teatro in periferia aspettando risposte al suo cv inoltrato in tutta Europa.

E perché non mia cugina, gli ho domandato io, licenziata dopo diciotto anni di lavoro in una fabbrica dolciaria del basso Piemonte per il semplice fatto di non essere fra le fortunate che intrattenevano il padrone nella stanza apposita. O lo zio del mio amico, che non prende lo stipendio da giugno per mandare avanti l’azienda di famiglia. Già, perché no? Ha avuto il coraggio di sentenziare quello schifoso porco rosso. Perché non sono quel tipo di scrittore piccolo e paffuto degenerato! Potrei magari parlare della dipendenza da cocaina del mio agente, della sua pancia molliccia e pelosa, di quella ballerina cacciata dal Bolshoi che ha tentato di circuire promettendole un’audizione con Ronconi. Sei un lavoratore anche tu, non me lo dici sempre, viscido verme? Eccolo lì, me lo immagino al telefono, tutto tremante, che si domanda se parlo sul serio. Vuoi piantarla? Che ti salta in mente? Sei impazzito? Meglio riattaccare. Sono solo incattivito.

Non sono pazzo. È questo tempo indeciso che mi repelle. Questa piaggeria, questa noncuranza costruita come si trattasse di gravità. Quest’idolatria per personaggi come la Gabanelli o come Santoro, anche se la prima vale mille volte il secondo. E cioè, quel che vorrei dire e scrivere sul lavoro, in realtà, sarebbe una sola cosa. Anzi due. Senza volare troppo in alto, per non apparire utopista: 1) Louie è una serie televisiva scritta in una maniera divina, diretta e interpretata da un Daniele Luttazzi americano o, meglio, da quello che potrebbe essere quel talentuoso comicastro se non avesse seguito come gli altri il filone dell’antipolitica e dell’antiberlusconismo militante. Louie ha una fotografia commovente, è fatta con due soldi ed è uno dei tanti esempi low budget che non vedremo mai prodotti in Italia. Perché non siamo capaci, in questo odioso paese, di uscir fuori dal melò, dalle rivombrose, dai pretucoli di campagna, dai santi napoletani. 2) American Horror Story. Una serie horror che parla di aborto, tradimenti, ritornanti, che si serve sapientemente di tutti i cliché sedimentati dal cinema horror e mischia tutto con grazia e mestiere. Recitata in maniera impeccabile, basta il fatto che sia stata prodotta a renderla memorabile. Ecco, cosa può produrre il lavoro.

Ecco che la bellezza può vendere e c’è un punto di contatto fra l’industria e l’arte né più né meno che fra le committenze rinascimentali e i grandi pittori d’arte sacra. E invece, qui, in questo luogo sovraccarico di disperazione, tutto quel che si può tentare di fare è ritagliarsi una nicchia ecologica in un appartamento a Torino (a dire il vero l’unica città che conserva una certa eleganza in Italia), trattenere il respiro, contare fino a dieci prima di rispondere a un trippone sudato e cocainomane che ha la pretesa di farsi passare per agente, far buon viso al cattivo gioco e consegnare più o meno in tempo queste tre paginette scritte male che a qualche criticonzolo da due soldi sembreranno anche ben scritte e cariche di un’intensa critica sociale.

Quando in realtà. In realtà è solo un modo per fare il proprio mestiere, guadagnare quei quattro denari in croce buoni per portare un’adorabile ragazzina a mangiare all’Arcadia e guardarle formarsi una deliziosa fossetta mentre sorride, godermi il riflesso delle pietanze sui suoi occhiali colorati e, mentre ne annuso la consistenza biscottosa nell’incavo del collo, parlarle di cose belle e importanti come una citazione di Giacomelli, che non so se sia anche poeta, o se sia considerato tale, ma dovrebbe, in barba a quel sicofante da operetta del mio agente: “La vita è un esile spazio, il cielo è così vicino… tutto è fradicio qui, un filo di nebbia ci tiene uniti. La terra è un paravento, piccolo cimitero di clown, materia vuota e pagata. Dio non vorrei lamentarmi, tu forse non sai, quaggiù, ferendo e rimarginando, passano i giorni. Saresti stanco anche tu”