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Nella prima puntata di questa inchiesta ci chiedevamo a che gioco stesse giocando la Commissione europea, che appena due o tre anni fa osava ancora sfidare gli argomenti populisti di certi governi nazionali. Con la seconda ci siamo concentrati su alcune recenti decisioni della Corte di giustizia dell’Ue in materia di libera circolazione dei lavoratori, che hanno contribuito a creare un clima politico allarmistico e restrittivo. La terza puntata ha cercato invece di dimostrare, cifre alla mano, come certi orientamenti politici, di stampo xenofobo, siano in realtà tanto demagogici quanto infondati.
Concludiamo la nostra inchiesta con uno sguardo ai principali e più recenti sviluppi della legislazione europea in materia. Parleremo soprattutto del cosiddetto Labour Mobility Package, della riforma della Direttiva sul distacco dei lavoratori e, infine, della Direttiva 2014/54, tesa ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione.
Labour Mobility Package
Fin dai suoi esordi, l’esecutivo europeo guidato da Jean-Claude Juncker ha annunciato a più riprese l’arrivo di un cosiddetto Labour Mobility Package, ossia un pacchetto di nuove misure sulla libera circolazione dei lavoratori, i cui contenuti non sono stati mai svelati. Le intenzioni generali del provvedimento sono state presentate dalla commissaria europea Marianne Thyssen al congresso internazionale sulla mobilità del lavoro svoltosi il 23 aprile 2015 all’Università di Cracovia. Secondo la commissaria, il Labour Mobility Package servirà a “sostenere le autorità nazionali nella lotta contro gli abusi e le frodi”. Per fare questo, le regole comuni a tutela dei diritti previdenziali dei cittadini che si spostano all’interno dell'Europa saranno riviste “per riflettere i cambiamenti dell'economia e della società”.
A parole, insomma, l'obiettivo è costruire un mercato interno più competitivo, più recettivo e più equo nei confronti dei lavoratori mobili e migranti. A luglio 2015, però, un dossier a cura dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa – basato su documenti inediti – ne ha svelato i retroscena. Con il pretesto della lotta contro “abusi e frodi”, si vogliono introdurre nuovi e più restrittivi criteri di accesso alle prestazioni sociali, che favoriranno Paesi caratterizzati da un’economia forte e da un solido sistema di welfare, come la Germania tanto per fare un esempio, e che penalizzeranno, nei fatti, sia i lavoratori mobili, sia i loro Paesi di origine, normalmente caratterizzati da sistemi economici, sociali e previdenziali più deboli rispetto a quelli dei Paesi di destinazione.
Per ora nel mirino dell’esecutivo europeo ci sono soprattutto le indennità di disoccupazione e le prestazioni per figli a carico: se il Labour Mobility Package diventerà legge, i lavoratori cittadini europei non saranno più uguali tra loro di fronte ai sistemi di welfare nazionali. Questo metterebbe in discussione i pilastri della libera circolazione dei lavoratori e tutto il sistema di sicurezza sociale che vi è stato costruito attorno, nell’arco di 60 anni. Metterebbe in discussione i fondamenti stessi dell’intero progetto europeo, sanciti dai Trattati e dalla legislazione europea. Ne ricordiamo di seguito alcuni.
• Il principio della “parità di trattamento”, secondo il quale ogni cittadino dell'Unione ha i medesimi diritti e doveri rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante (articolo 24 della Direttiva sulla libera circolazione dei cittadini Ue).
• Il diritto alle prestazioni familiari “anche per per i membri della famiglia residenti in un altro Stato membro” (articolo 67 del regolamento Ue 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale).
• Il principio secondo cui i lavoratori cittadini europei “godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali che i lavoratori nazionali” (articolo 7.2 del regolamento Ue 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori).
• Il principio secondo il quale si può essere soggetti alla previdenza sociale di un solo Paese, che è di norma quello in cui si esercita l’attività lavorativa (articolo 11 del regolamento Ue 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale).
• Il principio della conservazione dei diritti in corso di acquisizione. In altre parole, la possibilità di “totalizzare” i periodi assicurativi maturati in uno Stato membro, ai fini della determinazione di un diritto in un altro Stato membro (articolo 6 del regolamento Ue 883/2004 sul coordinamento della sicurezza sociale).
Ma a essere scardinato sarebbe, soprattutto, un principio fondamentale del diritto sociale, secondo il quale le prestazioni contributive sono un diritto assicurativo soggettivo, che appartiene alla persona in virtù appunto dei contributi versati durante la carriera lavorativa. Detto tutto questo, è tuttavia possibile, e soprattutto auspicabile, che visti i risultati del referendum sulla Brexit il Labour Mobility Package sparirà dall’agenda europea. Questo pacchetto di misure restrittive della libera circolazione dei lavoratori era stato infatti messo sul tavolo dei negoziati soprattutto per scongiurare l’uscita del Regno Unito dall’Ue. Se così sarà, inseriremo questo tra gli effetti benefici della Brexit.
Distacco dei lavoratori. All’interno dell’Unione europea, un lavoratore è considerato come “distaccato” se opera temporaneamente (massimo due anni) in uno Stato membro dell’Ue, per conto del proprio datore di lavoro stabilito in un altro Stato membro. Per esempio, un’impresa fornitrice di servizi che ottiene un appalto in un altro Paese e che decide di inviare propri dipendenti a eseguire il contratto, anziché assumerne sul posto.
Dal punto di vista del diritto sociale europeo, il distacco è inquadrato quindi nell’ambito delle prestazioni transnazionali di servizi e non della libera circolazione dei lavoratori, ed è quindi regolato in modo del tutto diverso rispetto al lavoro migrante. Per fare un esempio, mentre dal punto di vista previdenziale il lavoratore migrante è di norma obbligatoriamente assicurato nel Paese dove è effettivamente occupato, il lavoratore distaccato rimane coperto dal sistema previdenziale del Paese di appartenenza, anche durante i periodi di lavoro prestati all’estero.
Secondo le stime della Commissione, i lavoratori distaccati all’interno dell’Ue sono almeno due milioni, e il loro numero è cresciuto del 44% tra il 2010 e il 2014. Il trend è in crescita soprattutto nei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi. In Italia, il numero di lavoratori distaccati verso un altro paese Ue è cresciuto nello stesso periodo dell’85%. Anche se in termini percentuali il peso del lavoro distaccato rimane basso (meno dell’1% del totale delle forze lavoro occupate nell’Ue), il fenomeno sta creando tensioni e conflitti crescenti, soprattutto a causa della sua veloce crescita e dell’alta concentrazione in alcuni settori e Paesi.
Il settore delle costruzioni assorbe da solo circa il 44% del totale dei lavoratori distaccati, in pratica un lavoratore su due. In alcuni Paesi, come Belgio, Lussemburgo e Austria, più del 50% dei lavoratori distaccati è impiegato nei cantieri delle costruzioni. Ma un numero crescente di lavoratori distaccati è impiegato anche nel manifatturiero, in agricoltura, nei servizi alla persona (istruzione, sanità e assistenza sociale) e alle imprese (servizi amministrativi, professionali e finanziari).
I Paesi che ospitano il più alto numero di lavoratori distaccati sono, nell’ordine, Germania (414mila), Francia e Belgio. I primi due, però, figurano anche nella lista dei Paesi che distaccano a loro volta il maggior numero di lavoratori, subito dopo la Polonia. Quanto all’Italia, i lavoratori distaccati in arrivo sono circa 52mila, mentre quelli distaccati dall’Italia stessa sono oltre 74mila.
Il problema che crea maggiore ingiustizia e tensione attorno al fenomeno del lavoro distaccato è quello della retribuzione e degli oneri sociali a essa connessi. Come ci si attendeva da tempo, a marzo 2016 la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione delle norme sul distacco dei lavoratori, con l’obiettivo di promuovere il principio della “parità di retribuzione per lo stesso lavoro nello stesso posto”. Resterebbero invece immutate le norme previdenziali (l’impresa distaccatrice continuerebbe quindi a versare i contributi sociali nel Paese di stabilimento dell’impresa, e non in quello di effettiva prestazione del lavoro, e il lavoratore resterebbe per conseguenza affiliato al sistema di previdenza sociale del Paese di origine, e non maturerebbe diritti previdenziali nel Paese di occupazione, come spetta di norma a tutti gli altri lavoratori).
Il diritto europeo attualmente in vigore, e precisamente la Direttiva sul distacco dei lavoratori del 1996 (96/71/Ce), stabilisce già, per alcune materie, che i lavoratori distaccati siano soggetti alle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative del Paese ospitante. Ciò avviene, per esempio, in materia di periodi massimi di lavoro, riposo e ferie retribuite, tariffe minime salariali, salute, sicurezza e igiene sul lavoro, tutela delle gestanti e parità di trattamento fra uomo e donna. Questo non impedisce, però, la persistenza di discriminazioni importanti e, per conseguenza, anche forti tensioni tra lavoratori locali e lavoratori distaccati, con accenti sempre più spesso anche di tipo xenofobo.
Giusto per fare un esempio, una sentenza della Corte di giustizia europea del 2008 (sentenza Rüffert) ha proibito agli enti pubblici di attribuire appalti esclusivamente alle imprese che rispettano i contratti collettivi e, più specificamente, a quelle che corrispondono ai lavoratori impiegati nel cantiere almeno il salario minimo vigente in base al contratto collettivo del luogo di esecuzione dei lavoratori. In quell’occasione, 53 lavoratori distaccati in un cantiere edile della Bassa Sassonia (Germania) ricevevano da un’impresa stabilita in Polonia un salario pari al 46% del salario minimo fissato in Germania dal contratto collettivo nazionale (costruzioni). La Corte di giustizia ha ritenuto che un’eventuale parità di trattamento con i lavoratori tedeschi avrebbe costituito “un ostacolo alla libera circolazione dei servizi”.
È ovvio che questa viene percepita come un’ingiustizia, sia dai lavoratori distaccati – che non ricevono un’equa retribuzione –, sia dai lavoratori e dalle imprese locali – che sono vittime del dumping sociale così generato. Ora, in base alla nuova proposta della Commissione, i lavoratori distaccati dovrebbero essere sottoposti alle stesse norme che regolano il trattamento dei lavoratori locali, come stabilite dalle autorità pubbliche o dalle parti sociali dello Stato membro ospitante. Attualmente le imprese che impiegano lavoratori distaccati – almeno quelle che operano in alcuni settori, come la sanità e la sicurezza – sono già obbligate a corrispondere ai propri dipendenti una retribuzione pari alle tariffe minime salariali in vigore nel Paese ospitante, ma non tutti gli altri vantaggi associati alla retribuzione.
Se la riforma proposta dalla Commissione andrà a buon fine, gli Stati membri dovranno precisare in modo trasparente i diversi elementi che compongono la retribuzione sul loro territorio, e le condizioni stabilite dalla legge o da contratti collettivi di applicazione generale diventeranno obbligatoriamente applicabili anche ai lavoratori distaccati in tutti i settori dell’economia. Oltre alle tariffe minime salariali, quindi, la retribuzione comprenderà, ove presenti, anche gli altri vantaggi, bonus o indennità.
La proposta consentirà inoltre agli Stati membri di stabilire l’obbligo per i subappaltatori di garantire ai loro lavoratori lo stesso trattamento economico concesso dal contraente principale, e questo tanto per i subappaltatori nazionali quanto per quelli transfrontalieri. E le norme nazionali sulle agenzie di lavoro interinale dovranno finalmente essere applicate anche alle agenzie con sede all’estero che distaccano lavoratori, che fino a oggi potevano svincolarsi da questi obblighi.
I sindacati sono piuttosto diffidenti. Secondo la Ces (Confederazione europea dei sindacati), la proposta della Commissione migliora i diritti dei lavoratori distaccati, ma non garantirà davvero pari diritti a tutti i lavoratori in questione. La definizione di contratto collettivo contenuta nella proposta della Commissione è infatti troppo restrittiva, ed esclude i contratti collettivi settoriali di alcuni Paesi (tra cui Germania e Italia), così come tutti i contratti collettivi aziendali.
Non solo. La revisione non includerebbe alcuni principi di fondamentale importanza per fermare lo sfruttamento dei lavoratori, primo fra tutti il diritto dei sindacati alla contrattazione collettiva per i lavoratori distaccati, o ancora la corresponsabilità in caso di subappalto. Anche la Cgil esprime preoccupazione e si unisce all’appello della Ces affinché le nuove norme garantiscano eguaglianza di trattamento e di salario uguale per lavoro uguale, per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori distaccati.
Ma la proposta della Commissione non avrà vita facile. E non saranno certo le critiche dei sindacati a ostacolarne il cammino, ma piuttosto le resistenze degli Stati membri, preoccupati proprio per le norme sulla parità salariale. Già ad agosto 2015, con una lettera congiunta alla commissaria europea per l’Occupazione, gli Affari sociali e la Mobilità del lavoro (la belga Marianne Thyssen), i ministri del Lavoro di Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia Romania e Slovacchia, avevano chiesto di bloccare ogni revisione della Direttiva.
Nei mesi successivi, i parlamenti nazionali di 11 Stati membri (Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria) hanno inviato pareri negativi alla Commissione europea, sostenendo che la proposta viola il principio di sussidiarietà. In altre parole, bloccando l’azione dell’Ue, poiché considerata meno efficace rispetto ai livelli nazionali o locali (cosiddetta procedura del “cartellino giallo”).
Tuttavia, esaminati i pareri dei parlamenti nazionali, il 20 luglio 2016 la Commissione europea ha concluso che la proposta di revisione della Direttiva non viola affatto il principio di sussidiarietà, e che la riforma del distacco può quindi riprendere il proprio cammino.
Direttiva 2014/54 sulla libera circolazione dei lavoratori
Se il Labour Mobility Package dorme da due anni nei cassetti della Commissione europea, e la riforma delle regole sul distacco fatica ad avanzare, altre misure sono entrate invece nel frattempo in vigore. Stiamo parlando della nuova Direttiva sui diritti dei lavoratori nel quadro della libera circolazione. E stavolta non si tratta di misure restrittive o punitive. La misura ha infatti per obiettivo di eliminare gli ostacoli esistenti alla libera circolazione dei lavoratori, tra cui la scarsa consapevolezza delle norme Ue da parte dei datori di lavoro, sia pubblici che privati, e le difficoltà incontrate dai cittadini mobili nell’ottenere informazioni e assistenza negli Stati membri ospitanti.
La nuova Direttiva parte dal presupposto che l’effettivo esercizio della libera circolazione dei lavoratori non è ancora una realtà e che – a causa soprattutto della scarsa o cattiva informazione da parte delle istituzioni – molti lavoratori dell'Unione spesso ignorano i loro diritti, e spostandosi da uno Stato membro all’altro sono quindi facilmente vittime di restrizioni od ostacoli ingiustificati in diverse situazioni, come l’accesso all’impiego, le condizioni di lavoro, la retribuzione, il licenziamento, i diritti previdenziali e fiscali, i contratti collettivi nazionali, l’accesso alla formazione, l’iscrizione alle organizzazioni sindacali, l’alloggio, l’accesso all’istruzione per i figli dei lavoratori, il riconoscimento delle qualifiche, e altro ancora.
Non si tratta quindi di una Direttiva che introduce nuovi diritti per i lavoratori, né che modifica quelli già esistenti. Prescrive invece disposizioni specifiche per l’effettiva attuazione e per agevolare un’applicazione migliore e più uniforme delle norme sostanziali che già disciplinano la libera circolazione dei lavoratori. L’elemento più interessante è che questa Direttiva obbliga gli Stati membri a garantire che “uno o più organismi” a livello nazionale, ivi comprese associazioni e organizzazioni delle parti sociali, forniscano la dovuta assistenza giuridica e amministrativa ai lavoratori dell'Unione e ai loro familiari che esercitano il diritto alla libera circolazione.
Entro il 21 maggio 2016 tutti gli Stati membri avrebbero dovuto conformarsi a tale disposizione, e quindi non soltanto designare degli organismi di tutela dei lavoratori dell’Unione e dei loro familiari, ma anche assicurare che il raggio d’azione di tali organismi comprenda effettivamente tutti i seguenti servizi: assistenza giuridica, punto di contatto nei confronti di organismi equivalenti in altri Stati membri, realizzazione di indagini e analisi indipendenti riguardo al diritto di libera circolazione, monitoraggio dell’applicazione delle norme Ue sulla libera circolazione dei lavoratori, formulazione di raccomandazioni su ogni questione connessa a restrizioni, ostacoli e discriminazioni nei confronti dei lavoratori mobili.
La Commissione europea non ha ancora effettuato un monitoraggio dello stato d’attuazione della Direttiva nei diversi Stati membri. Per l’Italia, una delega al governo in questo senso è stata votata nella primavera 2015 dalle competenti commissioni parlamentari di Senato e Camera, nel quadro della cosiddetta legge di delegazione europea 2014. Di più non è dato sapere. Sarà interessante vedere se e come il governo coinvolgerà le organizzazioni delle parti sociali, esplicitamente menzionate dalla Direttiva come potenziali organismi di tutela dei diritti nel quadro della libera circolazione dei lavoratori.
La logica dei fatti vorrebbe che gli istituti di patronato siano in questo senso designati come attori di prima linea, avendo le risorse umane, le competenze e la struttura organizzativa per svolgere i compiti indicati dalla Direttiva. Di più, la tutela transnazionale dei lavoratori mobili fa parte della storia ed è presente nel Dna dei patronati. Basti pensare allo straordinario lavoro che l’Inca Cgil svolge ormai da 70 anni in Europa, e in oltre 30 Paesi del mondo. Tagli ai patronati permettendo, naturalmente. (4/fine)
Carlo Caldarini è direttore dell’Osservatorio Inca per le politiche sociali in Europa