... Ma alla fine era stato lui, Sergio Lunzen, a volermi nel loro team. Avevo firmato il contratto – dopo un mese in cui avevo dimostrato di saper sputare aggettivi fulminanti –, e mi ero subito convinto che sarei entrato alle nove di mattina per il resto della mia vita: autunno, inverno, primavera, solstizio d’estate compreso. Le stagioni avevano fatto il loro giro completo già cinque volte. Adesso, sotto a un poster incorniciato di una Berlino imbiancata dalla neve, avvolti dall’aria condizionata, eravamo di nuovo uno davanti all’altro, ma lui mi guardava con un misto di perplessità e dispiacere e con la punta demoniaca di onnipotenza che invade sempre gli occhi di chi sa di poter influenzare, stracciare, e poi appallottolare la vita di un altro essere umano, suo simile. Mi chiese se volevo fumare.

Era la fine di maggio, un venerdì sera, e il vecchio hotel di famiglia, il Miramare, dove avevo passato l’infanzia, tre mesi ogni estate, era ormai sull’orlo del fallimento. Tornato a casa dopo il colloquio, con i dolori muscolari tipici di quando si riceve un rifiuto più grande di quello che può incassare la sola mente, controllai l’orario dei treni. Piegai una camicia di lino sul letto, la infilai in valigia. Poi ne presi una seconda e feci lo stesso. Chiamai il taxi e mi feci portare alla stazione. Ero sudato, non avevo più il mio lavoro e il tassista aveva voglia di parlare dei ghiacciai che si stavano sciogliendo. Dal sedile del taxi, chiamai il Miramare. La voce di mia nonna era priva di stupore, come se fosse stata la norma ricevere una mia telefonata a quell’ora. Le proposi di tenermi un piatto da parte perché stavo arrivando, facevo un blitz, e anche questo non la turbò minimamente. Dal treno, inoltre, scrissi un sms a Irene per dirle che stavo andando al Miramare e che il mio lavoro era finito. “Le parole non servono più”, aggiunsi come post scriptum.
Il treno arrivò in orario. Alla fine, il mare aveva brillato oltre ai finestrini, tra una galleria e l’altra, e dopo un breve pezzo a piedi, nel sentiero invaso dalla macchia mediterranea che faceva le manovre per l’estate ormai imminente, sentii che la vita, per me, ricominciava.


L’Hotel Miramare, un tempo, è stato il cuore di Capo Smeraldo. La storia della sua costruzione è piena di malintesi, e risale ai nonni dei miei nonni. L’aura di splendore non è sparita. Ficcato sul promontorio, come un chiodo da un martello, mantiene ancora oggi una posizione privilegiata che lo renderà splendido per sempre. È la vita estiva di Capo Smeraldo, invece, che si è spostata; è scivolata giù verso il lungomare, ha preferito capitolare alle spiagge coi bagnini, abbandonarsi alle bancarelle di libri gialli, cedere alle gelaterie alla moda coi tavolini pieni, ha cambiato rotta esattamente come fa a volte il vento, che smette di soffiare da nord, e di battere il promontorio, e si lancia leggero a tamburellare sugli ombrelloni arancioni del lungomare. Le mode però cambiano, mentre lo splendore, si sa, resta per sempre.

Comunque, svegliarsi al Miramare è un’esperienza di paradiso, specialmente a fine maggio. Certi giorni si sente solo un silenzio profondo, quello che viene dritto dritto dal fondo dell’orizzonte. Altre volte, invece, si sente solo il vento, tra i rami alti dei pini, o le onde disorientate che si lanciano contro la roccia nuda del promontorio.
La prima notte ho sognato Teresa. Nel sogno le scrivevo una lettera con una penna stilografica per dirle di vedersi e di parlare e di chiarire. Lei mi telefonava e mi diceva che era la lettera peggiore che avesse mai ricevuto, mi scandiva per telefono: “Non-hai-più-rispetto-per-le-parole”, e attaccava senza darmi la possibilità di replicare.
“Dopo Teresa, ci mancava anche che perdevi il lavoro”, ha sottolineato Irene, la mattina successiva al mio arrivo a Capo Smeraldo, quando avevo appena finito di bere il mio tè freddo per colazione. Mi chiedeva come stavo, voleva dettagli su tutto. Voleva sapere che progetti avevo, ma io non avevo nessun progetto. Se non quello di stare lì, per un po’, e poi tornare. Voleva sapere se avevo avvertito Teresa e io non afferravo perché avrei dovuto avvertirla.

Il pomeriggio, dopo un pranzo con mia nonna sotto al pergolato, in cui si soffermò a elencare le spese e quindi i debiti accumulati dal Miramare nelle ultime stagioni, sono andato verso il lungomare. Ho attraversato la pineta, ho aggirato il circolo del tennis abbandonato, e mi sono messo a passeggiare come un turista, sul lungomare, dove c’erano moltissime cose da ammirare. Le filippine che spingevano le carrozzine dei neonati. I vecchi che annuivano leggendo i quotidiani sportivi spalancati sui tavolini di ferro del Bar Centrale, alcuni giardinieri inzuppati di sudore che si riposavano con prati polverizzati sul viso, i sandali che occupavano le vetrine e altri sandali che seguivano talloni e andatura delle ragazze che venivano lì a passare un weekend. E soprattutto, lontanissimo, il Miramare, un castello di sabbia volato via dalla battigia e precipitato sul promontorio.

A metà pomeriggio, mi ha chiamato Massimo. Era stata sicuramente Irene a raccontargli qualcosa. Stavo portando la bici dal ciclista, e il telefono prendeva male. La sera, alle nove, mi ha chiamato Paolo, che poi mi ha passato Sonia. Volevano sapere se avevo bisogno di aiuto. Ma io rispondevo che ero soltanto andato a trovare mia nonna e che sarei subito rientrato. Dovevo cercare un lavoro nuovo, ok, ma prima avevo semplicemente bisogno di qualche giorno di mare. Era così assurdo? Non avevo più dubbi, era Irene a spargere la voce.

Precisamente ai piedi del Miramare, guardando verso il porto turistico, superata con gli occhi la pineta, si trova il decaduto circolo del tennis, lo “Smeraldo Tennis Club”. Ai tempi, attirava i villeggianti di tutto Capo Smeraldo, poi, da quando ha spento i riflettori delle partite notturne, non ha attirato più neanche le nuvole di zanzare che amavano arrostirsi lì per estati intere. Ci sono passato davanti tre o quattro volte al giorno prima di chiamare io, Irene.
“Mi daresti il numero di Luca?”.
“Dimmi come ti senti. Vuoi che vengo lì da te?”.
“Dove?”.
“Lì. Ti vengo a fare compagnia”.
“Non ho bisogno di niente, solo del numero di Luca”.
“Teresa l’hai avvertita?”.
“Teresa?”.
Da quando la storia con Teresa è finita, prende sempre le sue difese. Eppure il suo amico sono io, no?

Sono arrivato al Miramare da due settimane. Ogni giorno mi chiama qualcuno. Irene mi chiama tutti i giorni, a volte sia la mattina che la sera, ha anche deciso di venire, è stato inutile opporre resistenza. Intanto ho cercato di ambientarmi. La vecchia camera con i galeoni di legno di quando ero piccolo si sta lentamente riempiendo di ritagli di giornali, di ritagli di pubblicità, e di qualche maglietta che compro al mercatino del martedì.
Il tempo intanto si va guastando. Già ieri sera il cielo si era coperto; oggi le nuvole corrono a coprire il sole e poi vanno via, ma tutte le volte che se ne vanno, arrivano subito altre flotte di nubi a dare loro il cambio. I turni durano qualche mezzora, ma mi pare che l’intensità e la frequenza stia aumentando. Le previsioni per i prossimi giorni chiaramente non sono buone. Anche la superficie del mare non è più tesa come era quando sono arrivato. Però, intanto, ho fatto le mie indagini. È stata mia nonna a introdurmi nei giri della gente che conta di Capo Smeraldo.

Lei conosceva il vecchio gestore del campo: Gaetano Bolla. Ma il campo, ho scoperto con venti anni di ritardo, non era suo, lo prendeva semplicemente in gestione ogni quattro anni. Il terreno appartiene ancora al Comune e così mia nonna mi ha messo in contatto prima con due assessori – entrambi disponibili e sorridenti quanto evasivi e privi di lungimiranza – poi, ieri pomeriggio, ha fatto in modo che potessi fissare un incontro privato con il sindaco. Con Luca Sanguelli, un bambino che stava sotto l’ombrellone dei genitori tutto luglio e agosto, abbiamo sempre sognato, quando il circolo chiuse, che un giorno l’avremmo rimesso in vita. Oggi è un padre di famiglia, e le rare volte che ci sentiamo lui mi ribadisce che è sempre pronto “in ogni momento” a realizzare il nostro grande progetto. Non ci credevo. E invece era vero.
Quando l’avevo chiamato, martedì scorso, era entusiasta. Era venuto la sera stessa a discutere della strategia da usare e a fare dei conti sulle possibili spese. Era stata una giornata intensa, piena di ricordi. Peccato che la sera se ne fosse ripartito.

Alla fine, ieri, l’incontro col sindaco è andato bene. È arrivato all’ultimo momento anche Luca che a un certo punto ha sfoderato il suo asso: un business plan. Il sindaco ci ha dato carta bianca e ci ha accompagnati all’uscita.

“Luca? E che fate?”.
“Grandi progetti”.
“Notizie dalla Staff Art?”.
“Si chiama Art Staff. Non si sono più fatti vivi. Quando dicono ‘rimaniamo in contatto’, ‘fatti vedere’, o ‘puoi continuare a lavorare come esterno’, vuol dire che sei licenziato. In tronco. È finita per sempre”.
“Ho incontrato Teresa”.
“E?”.
“Mi ha chiesto come stavi”.
“Immagino che non le avrai detto niente di me”.
“Perché non potevo?”.
“Appunto”.
“Ti conosce, dice che secondo lei rimani lì”.

Siamo a luglio e il tempo non è ancora migliorato. Ma queste nuvole lente, indolenti e flaccide sono ideali per strappare le erbacce, scassare il terreno per ficcarci dentro promesse di siepi, montare con viti e trapano il gazebo, scaricare i sacchi di sabbia rossa e farne un muro alto in fondo ai campi. Dietro quel muro, ogni tanto, mi addormento, come in una parodia della guerra, perché qui non c’è nessuno dall’altra parte che cerca di spararmi con una mitragliatrice. A volte, alla fine del pomeriggio, scende un po’ di pioggia, ancora più stanca delle nuvole che si trascinano in cielo. Una delle volte in cui ci siamo riparati sotto al gazebo, Luca mi ha raccontato del suo lavoro. In realtà non sta rinunciando a chissà cosa per il grande progetto. Da quattro anni lavora senza contratto e le prospettive, invece di migliorare, peggiorano.

Ieri, “del tutto a sorpresa”, Irene è venuta a farci una visita. Le abbiamo fatto vedere come procedono i lavori al campo. Poi è voluta venire al Miramare dove non entrava da almeno dieci anni, così almeno sosteneva lei. La sera siamo andati a cena tutti e tre in un ristorante nuovo per evitare un eccesso di nostalgia, ma poi abbiamo passato almeno metà serata a cercare di ricordarci quando era stata l’ultima volta che avevamo giocato insieme allo “Smeraldo Tennis Club”.

Da quando è arrivata la moglie di Luca e le loro due bimbe gemelle, i lavori procedono terribilmente a rilento. Eppure qualcosa è cambiato. Guardando Eleonora e Serena intravediamo una nuova generazione che crescerà a Capo Smeraldo. Si faranno amici qui, desidereranno questo luogo per tutto l’inverno, si innamoreranno qui e qui piangeranno per i primi fallimenti scolastici, affettivi, sentimentali. Hanno quattro anni, è l’età perfetta per imparare dritto, rovescio e correre a rete per rianimare le palle corte.

Irene continua a chiamarmi, ma adesso lo fa un giorno sì e un giorno no. Vuol dire che sto meglio.
“Ma non ce l’hai un lavoro?”, mi ha detto ieri notte mia nonna, svegliandomi, visto che mi ero addormentato sulla sdraio nel porticato, da dove guardavo le lucine delle navi che la notte rigano il mare da una parte all’altra.
Ho fatto finta di dormire.
Poi, però, quando è tornata fuori con la sua sdraio, e l’ha aperta accanto alla mia, e si è stesa, le ho detto che lo “Smeraldo Tennis Club” era rinato.
“Sei tutto strano. Ma stai bene”, mi ha detto lei, con la serietà di un dottore alla fine di una visita. E io non le ho risposto. Perché le parole, mi sono detto, non servono veramente più. Né con Sergio Lunzen, né con Teresa, né tanto meno per piegarle dentro stupidi slogan, e nemmeno, allora, con mia nonna. “Ascolta le onde”, mi ha detto lei saggiamente. E ci siamo messi tutti e due in ascolto.