“Sapere aude!”. Forse è proprio l’esortazione kantiana, ispirata alle epistole oraziane, quella che meglio sintetizza l’immagine dei cosiddetti lavoratori cognitivi. Ai giorni nostri il coraggio di coloro che decidono di scommettere, per il proprio futuro, sulla conoscenza va letto in un duplice senso: da un lato c’è la costanza e la curiosità nell’accrescere continuamente il sapere e le competenze, ma, dall’altro, anche il coraggio nell’accettare la sfida di una condizione occupazionale che sfugge alle regole del mercato del lavoro tradizionale, alla sua rappresentanza e a tutto ciò che questo comporta.

Insomma, se l’Unione Europea punta a fare del vecchio continente l’area del pianeta dove entro il 2020 la crescita e lo sviluppo dovranno essere fondate su sapere e intelligenza, di strada da fare, almeno nel nostro paese, sembra che ce ne sia ancora tanta. È quanto emerge dallo studio “Lavoro Conoscenza Sindacato. Una ricerca tra i lavoratori cognitivi” elaborato dall'Ires Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. Uno studio corposo realizzato attraverso la somministrazione di centinaia di questionari e la raccolta di un migliaio di interviste tramite i nuovi canali che offre internet: Facebook e Twitter su tutti.

Un’esplorazione di qualità frutto anche della scelta dei ricercatori di individuare tre ambiti di specializzazione dei cognitivi: in Emilia Romagna si è investigato sui lavoratori coinvolti nella riqualificazione di aree urbane e in attività culturali e creative, in Veneto tra quelli legati alla “manifattura intelligente” e in Toscana tra i lavoratori della conoscenza impiegati nella ricerca accademica. Un’indagine particolareggiata condotta in quell’universo fluido e per certi versi ancora indefinito che va da figure professionali più tradizionali come quella dei docenti, fino ad arrivare ai Pr delle serate in riviera, passando per blogger ed esperti di social media, giornalisti, architetti, ingegneri, formatori, ricercatori, informatici, grafici e attori. Insomma, un universo variegato fatto di piccoli imprenditori, soci, dipendenti, collaboratori e liberi professionisti dall’elevato grado di istruzione e che fanno dell’apprendimento continuo, dell’autonomia operativa e dell’organizzazione orizzontale e reticolare il minimo comune denominatore della loro professione.

Secondo i ricercatori, sono proprio le tipicità di questa organizzazione del lavoro che rendono particolarmente interessanti i dati emersi dallo studio: nell’era dell’accesso e della produzione flessibile e reticolare, questi lavoratori sembrano quelli che prima e meglio di altri si stiano adattando alle frontiere della nuova economia. Studiare e capire le dinamiche che li caratterizzano significa poter intravedere quale sarà in futuro il rapporto tra capitale e lavoro, informazione e conoscenza, tra impresa fordista e capitalismo cognitivo. Cogliere le dinamiche che interessano questi lavoratori significa intuire verso quale modello tenderanno sempre più economia e lavoro.

Dagli elementi raccolti viene innanzitutto confermato un primo dato: anche l’economia italiana, seppur in modo frammentato e disorganico, sta transitando dal capitalismo produttivo a quello cognitivo. Soprattutto nelle regioni meglio attrezzate a vivere questo passaggio. Basti pensare che nelle tre principali aree oggetto della ricerca sono più di 147 mila le persone almeno laureate con meno di 39 anni che offrono servizi di natura cognitiva alle imprese. Consulenti professionali, web designer e ricercatori, usano competenze specifiche e sofisticate non solo per dare un importante valore aggiunto alle attività d’impresa, ma anche per raggiungere un altro obiettivo importante: ottenere, in questo modo, una profonda realizzazione di sé attraverso il lavoro svolto. È questo il secondo rilevante elemento che emerge chiaramente dalla ricerca e che serve a definire con maggiore precisione i professionisti della conoscenza: costoro svolgono infatti lavori immateriali con ricadute importanti nei processi e nei prodotti che gratificano significativamente chi li ha generati.

Tutto bene, dunque? In realtà non è tutto oro quello che luccica. Infatti, nella ricerca si legge che le “figure con una spiccata caratterizzazione cognitiva mostrano apprezzamento per la complessità del proprio lavoro, che tende a correlarsi sia all’attesa esigente della prestazione, che all’incertezza del contesto”. Tradotto vuol dire che i lavoratori intervistati vivono una dissonanza tra il valore prodotto e gli scarsi riconoscimenti contrattuali e di reddito che il più delle volte sono costretti ad accettare. Nello specifico si legge che in media tra i cognitivi dei servizi alle imprese e gli altri cognitivi solo il 38% ha un contratto a tempo indeterminato. Se si sommano le forme di lavoro autonomo (22%) e le altre forme di lavoro a termine (39,5%), si scopre che oltre il 60% vive la condizione di precarietà come una costante della propria esistenza. Inoltre, tra quelli con un contratto a termine, il 67,7% non sa cosa accadrà alla scadenza.

Ma non finisce qui, perché oltre il 40% del campione considera il proprio reddito insufficiente a ricompensare la fatica professionale. Per molti la logica conseguenza di un lavoro poco vincolante e con redditi non esaltanti dovrebbe teoricamente essere l’abbandono di questa strada e la ricerca di nuove vie. E invece no. In questo caso è la passione a giocare un brutto scherzo. “Nella vasta gamma di aspetti che vengono presi in considerazione da queste figure molti solo indirettamente riguardano aspetti contrattuali… il riferimento alla passione, termine per altri versi quasi sconosciuto nel lessico utilizzato nei lavori tradizionali, ha un connotato così evidente da essere catturato dall’indagine”. Basti pensare che in una scala da uno a cinque il requisito della corrispondenza tra passione e lavoro svolto supera il quattro, ma nonostante il forte attaccamento alla propria professione, il 27,7% si dice pronto a scambiare la sua attività con un'occupazione stabile, affermazione che ottiene comunque la minore condivisione tra quelle proposte nel questionario. Viceversa, tra questi lavoratori l’idea di posto fisso sembra essere morta già da un pezzo: il 94,6% ritiene che non è importante svolgere per tutta la vita sempre lo stesso lavoro e quasi il 90% potrebbe tollerare la flessibilità occupazionale a fronte di ammortizzatori sociali adeguati nei periodi di transizione da un lavoro a un altro.

Una rivoluzione antropologica e sociale di questa portata non può non toccare anche il rapporto tra questi lavoratori e le categorie solitamente deputate alla loro rappresentanza. Così emerge con chiarezza che l’affermazione sempre maggiore del knowlegde worker ha delle conseguenze anche sulle domande e le attese nei confronti del sindacato. “La ricerca non ha solo un obiettivo speculativo, ma vuole indagare la trasformazione del lavoro, nelle forme del lavoro cognitivo, per fornire indicazioni sul nuovo quadro che si prospetta al sindacato” si legge nel testo.
E le evidenze raccolte mostrano una prospettiva chiara: gli aspetti centrali della regolazione sindacale (tipologie contrattuali, rapporti di lavoro e compensi) in una scala da uno a cinque raggiungono tutte un valore medio largamente inferiore al tre. I cognitivi, invece, sono molto più sensibili alle questioni legate alla burocrazia che si interseca con la propria professione o alla gestione del tempo di lavoro. All’apice delle questioni che stanno più a cuore ce ne sono tre: regolarità nei pagamenti (4,03 nella scala da uno a cinque), continuità lavorativa (3,99) e misure a favore della maternità/paternità (3,67). Nello specifico, però, alla domanda su chi dovrebbe fornire supporto in relazione alle criticità espresse si scopre che quasi il 40% del campione pensa allo Stato, mentre poco più del 20% immagina che sia compito del sindacato: seguono amministrazioni comunali, associazioni di categoria e ordini professionali che coprono il media ciascuno il 10% del campione. Il tasso medio di iscrizione al sindacato sfiora il 30%, ma se si considerano gli under 35 si scende intorno al 10, mentre nella fascia over 35 ci si posiziona intorno al 50%.

Ma la correlazione più interessante è iscrizione-tipologia contrattuale: quasi il 50% dei lavoratori a tempo indeterminato dichiara di essere iscritto, mentre la percentuale precipita a 1 su 10 tra i lavoratori autonomi, per poi risalire leggermente tra i lavoratori con contratti a tempo determinato. Paradossalmente, dunque, emerge il fatto che il sindacato ha maggiore difficoltà a intercettare i lavoratori che vivono in condizioni di particolare disagio lavorativo ed economico. La ricerca su questo campo mette in luce l’urgenza di un rinnovamento della prassi sindacale che dovrebbe essere in grado di tenere assieme sia un’attività contrattuale tradizionale, sia un’iniziativa forgiata su modelli lavoristi postindustriali per superare la crisi della rappresentanza che, proprio nelle categorie emergenti della nuova economia, ha la sua propagazione più diffusa.