Di fronte alle dinamiche – incomprensioni, tensioni, divisioni – che caratterizzano i rapporti tra il governo Renzi e il sindacalismo confederale, si è in genere portati a cercare di capire chi abbia più ragione: se il premier con le sue dichiarazioni, promesse, sogni e le misure varate con grande tempestività – perché è la velocità che più di tutto gli preme – o quanti ne criticano una certa approssimazione, i limiti, gli effetti perversi attesi di tali misure (si vedano le modifiche dei contratti a termine) e più in generale il rifiuto a negoziarle/concertarle preventivamente con i sindacati.

Il tema è sempre quello del rapporto tra sindacato e politica. O, forse sarebbe meglio dire, tra organizzazioni degli interessi e politica, poiché a essere parte in causa nelle polemiche che accompagnano le prime dichiarazioni e decisioni del governo Renzi oggi non c’è solo il sindacato, ma vi sono anche le organizzazioni degli imprenditori, benché certo in modo meno esposto. Ma è al sindacato che qui faremo esplicitamente riferimento.

E sempre, come dicevo in altre circostanze qualche tempo fa (benché non sia molto elegante, mi permetto di rimandare a un mio testo, pubblicato sul n. 3 di Quaderni di Rassegna sindacale-Lavori del 2008, con il titolo “Rappresentanza sindacale e rappresentanza politica: brevi note su un rapporto necessariamente complesso”), il tema è di quelli che suscitano una certa irritazione, salvo che nei rari momenti in cui tutto appare chiaro e consolidato, o per coloro che nutrono incrollabili certezze.

È un’irritazione che si ritrova sia tra quanti auspicano
che il sindacato si limiti a fare il “suo mestiere”, e che quindi non abbia a immischiarsi nella politica, sia tra quanti ritengono che il “mestiere del sindacato” non possa non avere anche un risvolto, una rilevanza politici – sul cui significato peraltro non pochi sono subito i distinguo e le diversità di vedute. Per gli uni l’irritazione è legata a quello che viene letto come attivismo debordante, ingerenza indebita del sindacato in una sfera che si pensa non debba competergli; per gli altri l’irritazione dipende piuttosto dall’insoddisfazione per una capacità d’iniziativa che appare spesso poco incisiva, subalterna rispetto alle attese. O viceversa – volgendoci dall’altro lato – l’irritazione riguarda sia quanti mettono l’accento sul fatto che governo e partiti hanno una propria ben chiara e definita sfera d’azione di tipo generale, basata sulla legittimazione elettorale, e che quindi non debbano curarsi di rendere conto a chi opera negli ambiti sociale e economico, sia quanti pensano che l’azione politica non possa, o quanto meno non sia bene che prescinda, dal dialogo-confronto sistematico con le organizzazioni intermedie degli interessi per poter essere efficace e efficiente.

Per gli uni l’irritazione è legata
a quella che viene letta come pretesa di arrogarsi un ruolo di condizionamento su chi ha responsabilità di perseguire il bene generale da parte di organizzazioni che (quando va bene) rappresentano interessi parziali; per gli altri l’irritazione si poggia piuttosto sull’insofferenza o la delusione per una scarsa capacità delle parti a sfruttare al meglio le opportunità che possono derivare da un dialogo-confronto seri. In effetti, il tema è oggettivamente complicato, si evolve nel tempo, non si presta a essere impostato in modo soddisfacente una volta per tutte. E si noti che non si tratta di una prerogativa italiana. La si ritrova in molti paesi europei. Negli anni settanta, la problematicità dei rapporti tra Trade Unions e governo laburista in Gran Bretagna era evidentissima (e fu uno dei fattori che favorì la vittoria elettorale della signora Thatcher), così come lo fu quella tra fine anni novanta-inizio anni duemila tra la Dgb e il governo del socialdemocratico Schröder in Germania. E sono esempi a partire dai quali si potrebbe mostrare che la questione riguarda in modo particolare i rapporti tra sindacati e governi di sinistra.

In effetti, diversamente da quanto spesso si pensa, non è disponibile una facile ricetta per impostare le relazioni tra sistema di rappresentanza sindacale e sistema politico in termini di chiara distinzione dei rispettivi ambiti d’azione e/o di definizione di comportamenti da considerarsi corretti, o comunque migliori. Il sindacato, per rappresentare il lavoro – un lavoro le cui determinazioni e i cui confini non sono statici, ma in continua evoluzione – potrà a buon diritto cercare di agire sul terreno politico, oltre che su quello economico, anche perseguendo obiettivi le cui ricadute potranno riguardare cerchie più ampie di quelle dei rappresentati in senso stretto. Dal canto loro, i governi, nello svolgere la loro funzione di perseguimento del bene comune, potranno a buon diritto adottare misure che riguardano il funzionamento del mercato del lavoro o delle imprese, senza doverne dar necessariamente conto alle organizzazioni degli interessi.

Sul piano dei comportamenti, ciò potrà dar luogo a conflitti che talvolta, ma non necessariamente, si cercherà di comporre in modo più o meno consensuale, a seconda delle circostanze e delle convenienze delle parti. Negli ultimi decenni le soluzioni sono state molte: politiche negoziate, scambio politico, patti sociali e concertazione senza scambio, dialogo con chi ci sta, consultazioni delle parti sociali, decisioni autonome dei governi, nonché azioni conflittuali autonome dei sindacati.

Specie in sistemi a bassa istituzionalizzazione
come il nostro, i repertori possibili sono infatti quanto mai ampi. Che quindi in momenti critici ne nascano irritazioni, polemiche, contrapposizioni, non stupisce affatto: non essendoci nulla di scontato, le diverse posizioni sono lecite. Un qualunque falsamente rappacificato unanimismo sul come fare, oltre che sul che fare, è fuori luogo. Il problema diventa allora quale possa essere la forma migliore del rapporto in un momento dato. Migliore dal punto di vista di chi o di che cosa? Del governo? Del sindacato? Del bene pubblico?

Chi scrive ritiene che le possibilità offerte da soluzioni di concertazione reale, e non di forme riduttive di “dialogo con chi ci sta”, siano anche oggi le più adatte al perseguimento del bene pubblico. Perché permettono di trarre vantaggio da chi i problemi li conosce non astrattamente, e soprattutto perché permettono di definire prima gli obiettivi comuni in modo da facilitarne l’attuazione poi in modo fluido. Ma esse richiedono prerequisiti stringenti. Il più importante è che tutte le parti siano interessate a una soluzione concordata dei problemi, e quindi disponibili non a imporre o rivendicare, ma a prendere seriamente conto ciascuna delle esigenze e difficoltà delle altre. È questo oggi il caso?

* Docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro Università degli studi di Milano