Che cosa resta delle celebrazioni e delle iniziative per il sessantesimo anniversario della firma dei trattati di Roma, a distanza di una settimana dal vertice solenne in Campidoglio dei capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell'Ue? Direi soprattutto tre elementi, diversi tra loro per significato e valenza, ma altrettanto importanti. È utile partire da un dato positivo. Sabato 25 marzo 2017, mentre i leader europei apponevano la firma sotto la Dichiarazione di Roma, migliaia e migliaia di cittadini europei, a Roma come in altre capitali d'Europa, sono scesi in piazza e hanno dato una plastica dimostrazione – manifestando per l'idea originaria dell'Unione europea, dell'integrazione, dello spirito federalista, della straordinaria intuizione di Ventotene – di come il sogno di un'Europa unita e solidale sia ancora vivo e presente nella società e continui a esercitare un richiamo e una suggestione molto forti. Non era un fatto scontato, soprattutto a Roma, dove i timori per scontri di piazza e violenze da parte delle frange più estreme dei movimenti antieuropeisti erano molto forti, alla vigilia dei cortei.

Per fortuna, i timori sono rimasti tali e la mattinata del 25 ha visto due manifestazioni partecipate e combattive, quella dei sindacati (tra cui la Cgil e la Ces) e dei movimenti sociali riuniti attorno all'appello “La nostra Europa” e quella delle varie organizzazioni federaliste, il cui obiettivo comune è stato reclamare un’Europa nuova e diversa rispetto allo stato di cose presenti. Uno stato deludente, segnato dallo stallo nel processo di integrazione, dalla prevalenza del metodo intergovernativo e quindi dei veti incrociati, dall'eclissi della dimensione sociale del modello europeo, dalle politiche economiche di austerità e rigore.

Un insieme di fattori che hanno da un lato provocato il cortocircuito nell'architettura istituzionale dell'Unione e dall'altro alienato le simpatie e il favore dei cittadini rispetto all'idea di Europa, trasformatasi dal primigenio progetto di sviluppo comune e di progresso pacifico e progressivo nel confuso guazzabuglio odierno, in cui le poche certezze sono le scelte economiche ispirate dal neoliberismo e, dunque, ostili ai lavoratori. Tutto ciò ha provocato le misure sbagliate sul versante sociale, il potere abnorme esercitato sulle economie nazionali da strutture tecnocratiche e non democraticamente selezionate (un esempio su tutte, la cosiddetta Troika), l'aumento delle disuguaglianze e della disoccupazione, il deterioramento dei diritti del lavoro e della contrattazione collettiva, la mancanza di visione e di coraggio su temi decisivi per il futuro, come il governo dell'economia e della moneta, la dimensione sociale, il fenomeno dell'immigrazione.

Chi ha manifestato a Roma sabato scorso ha fatto una scelta di campo precisa e ha avanzato una richiesta chiara: ossia che si ponga fine a questa inaccettabile condizione di paralisi e di inazione e che i leader dei Paesi europei trovino il coraggio di rimettere in moto senza ulteriore indugio il processo di integrazione e di convergenza. Quel processo che nel corso degli anni, dai primi passi comuni rappresentati dalla Ceca, dall'Euratom, dalla Cee e dagli sviluppi successivi, ha assicurato un lungo periodo di pacifica convivenza e di progresso per i cittadini e i Paesi del vecchio continente. Una strada obbligata e senza alternative, se non ci si vuole rassegnare al tramonto del progetto europeo e al prevalere di quelle forze politiche che raccolgono crescenti consensi in virtù del no all'Europa, del rifiuto dell'integrazione e del ritorno alla sola dimensione nazionale, spesso in un quadro ideologico segnato da preoccupanti rigurgiti autoritari e xenofobi.

Certo, e qui siamo al secondo elemento importante, non si può dire che delle richieste di chi ha manifestato per un'altra Europa ci sia traccia significativa nella dichiarazione finale approvata dai 27. Come spesso accade negli ultimi anni, alla solennità e alle aspettative dei vertici fanno seguito documenti e risoluzioni che non vanno oltre le generiche dichiarazioni di buona volontà e l'affermazione di impegni futuri, peraltro raramente vincolanti. In più, in questa circostanza, si è convenuto circa la possibilità di procedere a “diverse velocità” nella realizzazione di specifici progetti comuni, aumentando il rischio di accrescere le divergenze e gli squilibri all'interno dell'Unione, anziché di contrastarli. E dando ulteriormente il destro alle possibilità di smarcarsi, di non rispettare gli impegni comuni in virtù di “superiori” interessi nazionali, di non sentirsi legati agli impegni assunti, da parte di quegli Stati che continuano a tenere il piede sul freno. Dopo solo poche ore dalla firma del documento finale del vertice, per esempio, i quattro Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) hanno dichiarato di non avere intenzione di rispettare quanto previsto dal piano concordato di redistribuzione e accoglienza dei profughi e dei rifugiati su scala europea. Una sorta di opt out a cui presto si sono accodati altri Paesi.

Ecco, è proprio questo meccanismo di blocco, questo intralcio permanente al processo decisionale comunitario, che va rimosso, per dare respiro e linfa nuova alle speranze di riattivare il percorso dell'integrazione in Europa. Un percorso che non potrà non tener conto della necessità di riprendere e di rilanciare i temi della governance economica e della dimensione sociale dell'Unione europea. Sul primo tema siamo ancora lontani rispetto ai nodi essenziali e alle richieste del sindacato europeo. Non emerge la volontà di superare il divario tra gli Stati, di conseguenza si continua ad assicurare vantaggi competitivi ai Paesi forti sul piano dei conti e delle dinamiche commerciali, a partire dalla Germania. Né si intravede l'indicazione di obiettivi che mostrerebbero la volontà di cambiare passo, dalla creazione di un Tesoro europeo alla discussione sulla possibile condivisione di parte del debito degli Stati, dalla emissione di eurobond e strumenti finanziari comuni alla grande questione dell’insostenibilità di meccanismi come il Patto di stabilità o il Fiscal Compact e, quindi, della necessità di una loro profonda revisione.

Sullo specifico aspetto della dimensione sociale, a essere obiettivi, qualche segnale importante e più che simbolico c'è invece stato. Intanto, nel prologo al summit, cioè nella giornata di venerdì 24 marzo, quando il governo italiano ha ospitato a Palazzo Chigi il vertice sociale tripartito, ossia la sede più alta e autorevole di svolgimento del dialogo sociale. Attorno allo stesso tavolo hanno discusso di Europa sociale il premier italiano Gentiloni, il premier maltese Muscat, nella sua veste di presidente di turno dell'Ue, il presidente del Consiglio europeo Tusk, il presidente della Commissione Juncker, il leader della Confederazione europea dei sindacati Visentini (accompagnato dai segretari generali dei sindacati italiani e da una delegazione di sindacalisti di altri Paesi europei), i rappresentanti delle associazioni europee dei datori di lavoro.

Significativamente, l'incontro è stato concluso da Stefan Lofven, primo ministro svedese, già leader del sindacato dei metalmeccanici di quel Paese, che convocherà nel prossimo novembre a Göteborg una riunione dei leader europei dedicata specificamente alla dimensione sociale dell'Europa e al Pilastro europeo dei diritti sociali attualmente in discussione. E poi vi è il capitolo dedicato a queste questioni della dichiarazione finale, capitolo oggetto di un vero e proprio negoziato con le parti sociali, in cui in linea di principio l'idea di sviluppare un processo di convergenza dei diritti e degli standard sociali in Europa è affermata con più nettezza del solito.

Infine, il terzo dato, quello più negativo, ossia il fatto che la dichiarazione sia firmata da 27 Paesi anziché i 28 a cui eravamo abituati. A pochi giorni dal vertice, il primo ministro britannico ha ufficialmente consegnato alle autorità europee la lettera con cui si dà avvio formale al processo di uscita del Regno Unito dall'Ue. Era una decisione attesa, indubbiamente. E, tuttavia, il fatto che essa si sia verificata a meno di una settimana dalla celebrazione dei sessant'anni di cammino europeo lascia davvero l'amaro in bocca. Oltre a costituire un precedente e un segnale incoraggiante per chi lavora alla distruzione del progetto europeo. Commentando la separazione, la signora Theresa May ha dichiarato: "I giorni migliori per la Gran Bretagna sono davanti a noi". Non la pensava così il suo predecessore Edward Heath, primo ministro britannico nel 1973, anno di adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea. Heath, conservatore di lungo corso, aveva deciso di impegnarsi per l'adesione pensando, come riportavano i giornali dell'epoca, "non tanto ai benefici per il presente quanto alla vita migliore per i nostri figli e i nostri nipoti".

Sta esattamente qui, nell'abisso che separa le speranze di quarant'anni fa e il freddo distacco dell'oggi, il fallimento delle classi dirigenti nazionali ed europee, che nell'ultimo decennio, e nel vivo della più grande e duratura crisi economica e sociale dal 1929, hanno deviato il corso del progetto dal suo approdo naturale – l'integrazione politica, istituzionale, sociale, dopo quella dei mercati e dell'economia –, lasciandoci a metà del guado. Ed è quindi responsabilità dei leader attuali adottare scelte coraggiose e prendere misure adeguate per assicurare il futuro dell'Europa e confermare ex post le ragioni non del pragmatico cinismo dell'oggi, ma quelle del coraggio di chi ha sperato e continua a sperare nel domani comune.

Fausto Durante è il responsabile Politiche europee e internazionali della Cgil