A tre anni dal suo romanzo d’esordio, “La fabbrica del panico” (premio Campiello opera prima), Stefano Valenti torna con una seconda, potente opera, “Rosso nella notte bianca” (Feltrinelli, p. 122, 12 euro). In un suo fortunato libretto intitolato “Il realismo è l’impossibile”, uno dei nostri maggiori scrittori, Walter Siti, sostiene che le narrazioni realistiche in letteratura risultano tanto più efficaci quanto più si allontanano da una rappresentazione semplicemente “naturalistica” della realtà medesima. Un punto di vista laterale, apparentemente stravolto può, e proprio in virtù di questo straniamento, rivelare delle cose che ci circondano gli aspetti più nascosti e difficili da cogliere con un occhio troppo appiattito su di esse. 

Credo che questo concetto possa ben applicarsi al romanzo di Valenti. Ispirato a un fatto realmente accaduto, Valenti racconta la vicenda di Ulisse Bonfanti che nel novembre del ’94 torna in Valtellina e uccide a picconate Mario Ferrari, vecchio fascista delle Brigate Nere, responsabile della morte della amata sorella Nerina per aver appiccato nel ’44 un incendio alla vecchia baita di famiglia.

Lo spazio temporale tra la durezza dell’Italia contadina e il momento della vendetta – passando per la Resistenza e il lavoro in fabbrica – è raccontato, anzi rappresentato teatralmente, nello spazio stravolto e allucinato della mente del Bonfanti, comunista e cattolico, ortodosso ed eterodosso, che attraversa come un testimone privilegiato cinquant’anni della nostra storia e ce li racconta in una ultima notte solitaria e allucinata, prima di consegnarsi ai Carabinieri. Ed è proprio questa sua malattia, la sue cecità mentale a renderlo fragile e perciò “veggente”, capace cioè di cogliere i passaggi fondamentali di una storia di vinti, quelle di un paese che ha fallito e continua a fallire nel suo cammino verso una normalità. 

Distrutta la famiglia nell’incendio del nido-baita (mai troppo rassicurante, però), Ulisse e sua madre Giuditta si trasferiscono in Val di Susa ed entrambi iniziano a lavorare in una fabbrica tessile. L’embrione dell’Italia operaia, un passetto in avanti rispetto a quell’Italia contadina in cui “era forte la fame, una grande fame, diceva Giuditta nel racconto di Ulisse, e diceva che di carne ne vedevano di tanto in tanto, a fatica, due, tre volte l’anno, in occasione delle feste comandate… Una minestra di verza prima di coricarsi. Nient’altro. La vita era una corsa verso la morte”. 

La fabbrica è un “po’ meglio”, si sta insieme agli altri, c’è un po’ di solidarietà, ma non sempre ovviamente, “e così, in cambio del salario, abbiamo accettato la fabbrica, dannazione della miseria, dannazione di tutte le dannazioni”, diceva Giuditta. E, ancora: “Prendo la pensione che è una grande cosa, che una volta i nostri vecchi morivano in miseria, prendo le pensioni coi contributi della fabbrica, e non devo chiedere la carità a nessuno”.

Anche dai pochi esempi citati si coglierà la qualità di una prosa, quella di Valenti, scandita ossessivamente sull’orlo di un abisso mentale e linguistico, una prosa ritmica, poetica, che sembra sempre sul punto di dissolversi ma in realtà è dominata con grande fermezza dall’autore, tanto più presente quanto più la storia si ingarbuglia nel racconto filtrato dalla mente malata di Bonfanti in cui si confondono le voce dei singoli protagonisti. 

In molti hanno citato a ragione, come punti di riferimento di Valenti, Fenoglio, Rigoni Stern, Revelli, ma si sente anche molto nettamente la voce di altri due grandi narratori “folli” del nostro Novecento quali Volponi e Di Ruscio. Di Ruscio, in particolare, nel rifiuto di qualsiasi ipotesi di salvezza o riscatto praticabile nella Storia, fosse anche solo nel racconto:

“E di me, di quelli come me, di contadini, di operai, dei miserabili, dice Ulisse, nessuno ha memoria; di me, di quelli come me, l’Italia intera non ha memoria, ha abbandonato tutti noi, l’Italia, come dimentichi un parente morto che ha trasmesso un’eredità e continui a divertirti, l’Italia ha detto grazie e arrivederci; di me, di noi, non ha memoria nessuno, che era meglio dimenticarci, ricostruire l’Italia tale e quale a prima, proprio identica a prima, coi medesimi al comando e i medesimi comandati, come niente fosse, i medesimi senza eccezione, come tutte le volte nel tempo andato”.

Insomma: è vero che il ritorno in Valtellina chiude una storia, un cerchio. Ma forse il punto è proprio questo, quando si chiude un cerchio alla fine si torna al punto di partenza. La vendetta di Bonfanti salda un conto, ma è un gesto che sul piano storico e collettivo non salva niente e nessuno.