“Ho scritto questo pezzo l’estate scorsa. Vengo da un paese della provincia di Taranto e avevo voglia di raccontare la storia della mia gente”. Gabriella Martinelli, cantautrice con due album all’attivo – Ricordati di essere felice, La mia pancia è un cervello col buco (qui una nostra intervista dell'anno scorso all'autrice) – spiega com’è nato “Il gigante d’acciaio”, il brano cantato con Lula al Festival di Sanremo 2020.

Perché hai scelto proprio questa canzone per scendere quelle scale?

I miei cugini sono ex dipendenti Ilva, mio nonno ha lavorato tutta la vita in fabbrica e mi sembrava doveroso affrontare questo argomento, ma volevo che non rimanesse una storia di pochi, una storia di pugliesi. Per questo ho coinvolto Lula, che ha scritto lo "special" del brano, trasformandolo in un messaggio universale: l’ambiente, la sicurezza sul lavoro, la storia di chi vive di sacrifici e lascia anche la propria terra. Ho sempre sognato il palco dell’Ariston, lo confesso. Mi sono iscritta ad “Area Sanremo”, un concorso che apre le porte a chi non ha contratti discografici e siamo arrivate fino alla fine. Questa è un’enorme vittoria per noi.

Una grande vittoria nonostante non abbiate passato il turno, forse penalizzate dal meccanismo delle battle che ha portato all’eliminazione veloce di un pezzo che avrebbe richiesto un ascolto più “lento”. Sei d'accordo?

Stiamo ricevendo tanto affetto dai social, dai pugliesi, dalle associazioni del territorio, siamo ospiti quasi tutte le sere all’Altro Festival. Il nostro sta diventando una specie di inno ai lavoratori e questo ci fa tanto piacere. Hai ragione, il meccanismo delle battle ti costringe a fare tutto in velocità, però la grande vittoria è essere salite su quel palco con questa canzone.

Ciò che colpisce nell’ascolto de “Il gigante d’acciaio” è che, fuor di metafora, dice le cose come sono. Sembra quasi un articolo di giornale tradotto in musica e parole.

Lo hai colto in modo straordinario. Nella canzone ci sono le parole di mio cugino, ex dipendente Ilva, che mi ha ispirato questo brano. L’estate scorsa parlavamo di scelte – andare, restare, lasciare una terra che si ama moltissimo, rimanere e accettare di fare ciò che non corrisponde alle tue aspirazioni più genuine – e mio cugino mi dice: “Papà ha sposato due figlie e mo’ resto io”. È un modo di dire pugliese, significa che, sposate le sue sorelle, sarebbe toccato poi a lui decidere cosa fare. Mio cugino ha scelto di seguire la strada di suo padre, a fatica, nonostante sapesse che non era semplice, che lavorare in quella fabbrica significava anche poter fare del male ad altre persone e prima di tutto a se stesso. L’ex Ilva è un grande cane che si morte la coda: dà lavoro a oltre diecimila persone, ma fa male alla salute. La prima parte del pezzo racconta l’incoscienza dei bambini del quartiere rosso, il quartiere Tamburi. Mio nonno mi raccontava che quando erano piccoli giocavano con le polverine, ignari che fossero la causa di molti mali. Sì, ho scelto le parole della gente, perché volevo esprimere questi concetti nel modo più diretto possibile.