Dal rogo del palazzo dei sindacati a Odessa, avvenuto il 2 maggio scorso, il caos che stringe l’Ucraina in una morsa sempre più soffocante si è tinto di nero. L’ombra del neonazismo si è espansa sulle vicende ucraine, con il suo terribile strascico di morti. Sono 48 le vittime accertate di quel rogo, ma gli abitanti della città che si affaccia sul Mar Nero continuano a dichiarare che mancano all’appello 50 loro concittadini. I fatti, in questo tragico eccidio che molti anziani ucraini – forse memori degli orrori avvenuti durante la seconda guerra mondiale – definiscono pogrom, lasciano pochi margini alle interpretazioni.

Una manifestazione pacifica di sostenitori dei sindacati e dei partiti di sinistra della zona, tra cui donne, giovanissimi, bambini, ragazzi, è stata attaccata da squadre di paramilitari e milizie facenti capo all’organizzazione dell’ultra-destra nazionalista, Pravy Sektor (letteralmente, “settore destro”). I partecipanti al sit-in si sono rifugiati nella sede storica dei sindacati, il palazzo alle loro spalle, e lì sono stati accerchiati dalle milizie neonaziste. Il terribile epilogo, emerso a poco a poco sui media di tutta Europa, ricorda da vicino per le modalità e la ferocia il massacro degli ebrei di Odessa, avvenuto durante la seconda guerra mondiale, nel 1941, ad opera delle truppe della Wermacht e dei collaborazionisti rumeni e ucraini.

Il luogo in cui è avvenuto l’eccidio, la casa dei sindacati, non sembra casuale: negli ultimi mesi gli attacchi squadristi dei militanti di Pravy Sektor e dei sostenitori dell’ex-partito Nazional-Socialista Ucraino, ora denominatosi Svoboda (Libertà) e parte integrante del governo presieduto dal premier ad interim Arseniy Yatsenyuk, si sono succeduti ininterrottamente contro le sedi di partiti e organizzazioni sindacali di sinistra, che sono state distrutte o date alle fiamme. La situazione, nel paese che un tempo veniva definito “il granaio d’Europa”, è dominata dal caos. Le linee di divisione si confondono, si sfumano e cambiano con il passare delle settimane.

Un dato è certo: la contrapposizione fascismo-antifascismo, fornita dalle stesse autorappresentazioni di Pravy Sektor e Svoboda, presentatisi quali eredi di Stepan Bandera – il leader dei nazionalisti ucraini alleati del Terzo Reich e inquadrati nelle SS tedesche durante la seconda guerra mondiale, feroce anticomunista e protagonista di eccidi di massa nelle regioni occidentali del paese –, è un elemento determinante per capire alcune dinamiche di fondo che muovono l’Ucraina. A questo si uniscono, a volte si sovrappongono, altre si mischiano, le spinte nazionaliste, sia filo-russe sia filo-Maidan (la piazza centrale di Kiev, che è diventata l’emblema della rivoluzione arancione e delle successive rivolte).

Le proteste di piazza Maidan contro il premier Yanukovich sono state rappresentate dai media occidentali come semplicemente “europeiste”, ma erano in realtà ben più variegate al loro interno, e contraddistinte dalla presenza di militanti neonazisti, che sfoggiavano stendardi e simbologie riconducibili all’estrema destra europea e inneggianti all’Ucraina ripulita dalle minoranze etniche nazionali. In questo quadro, complicato dai fantasmi del passato che sembrano non aver mai abbandonato questa terra, e dagli interventi dei diversi attori stranieri guidati da interessi militari, economici e geopolitici, un peso non indifferente è rappresentato a livello locale dalla grande industria mineraria dell’est del paese.

Qui l’imponente forza-lavoro costituita dai minatori, le cui azioni e scelte potrebbero decisamente cambiare il corso degli eventi, è in grado di determinare la vittoria dell’uno o dell’altro contendente, di contribuire alla risoluzione in un senso o nell’altro di una situazione di stallo: in ballo c’è la possibile dissoluzione del paese, o al contrario la sua futura integrità all’interno degli attuali confini, in un assetto federale o meno. Con l’economia dell’Ucraina in forte depressione, la parte che è considerata più prospera e dotata di maggiori ricchezze è proprio quella orientale, il Donbass, formato dalle due regioni separatiste di Lugansk e Donetsk.

La sua industria mineraria impiega circa 500mila persone in tutta la regione, fornisce circa il 15 per cento del Pil, e il solo carbone rappresenta il 30 per cento del consumo energetico nazionale. Proprio in queste zone si è tenuto pochi giorni fa il referendum per la richiesta di federalismo, o in alternativa la separazione, che ha visto la stragrande maggioranza della popolazione locale esprimersi a favore della seconda opzione. I manifesti elettorali apparsi nelle strade delle città prospettavano agli elettori l’immagine di un militante neonazista con la fascia rosso-nera al braccio di Pravy Sektor e una bomba molotov in mano, contrapposta a quella di un minatore che porta con sé un fascio di fiori rossi, rimando alle celebrazioni in ricordo della vittoria russa sul nazifascismo del 1945.

Dunque, ogni giorno che passa le vicende dei minatori del Donbass si intrecciano sempre più con tutti i fattori che hanno prodotto la situazione attuale. E sono loro adesso a rappresentare l’ago della bilancia. Appaiono significativi, al riguardo, l’atteggiamento e i proclami di Mykhailo Volynets, influente capo di uno dei sindacati dei minatori del Donbass – denominato Indipendent Union of Donbass – molto legato al nuovo premier, per anni deputato e rappresentante del partito di Yulia Timoschenko: Volynets ha rivolto un appello ai minatori perché si schierino a fianco del nuovo governo e ha chiesto di affiancare le squadre speciali del governo e i paramilitari in azione nell’est ucraino.

I minatori però, così come tutta l’Ucraina e il suo popolo, sono profondamente divisi al loro interno: alcuni si riconoscono in Maidan, altri si dichiarano anti-governativi, altri ancora si augurano perfino un intervento russo e una futura annessione. C’è chi dichiara: “Quelli che lavorano come noi non hanno certo il tempo di erigere barricate”. E altri che auspicano: “Dobbiamo separarci dall’Ucraina che ci ha dichiarato guerra”. I lavoratori delle miniere si trovano quindi nel mezzo di un fuoco di fila di schieramenti opposti, ognuno dei quali cerca di legarli a sé.

In questo quadro giocano un ruolo non indifferente le condizioni lavorative, le prospettive di congelamento o abbassamento dei salari, per alcuni anche la possibilità di perdere il lavoro. La strage di Odessa ha contribuito ad approfondire il solco tra sostenitori del nuovo governo e oppositori. Con l’avvio della cosiddetta “Operazione antiterrorismo”, che sta portando alla morte di decine di civili disarmati e non solo di miliziani separatisti, molti minatori che erano su posizioni federaliste si sono schierati con le milizie e i civili antigovernativi, presentandosi sulle barricate.

L’impressione è che chi guadagnerà il consenso dei minatori conquisterà l’Ucraina intera. Ma in tutto ciò non saranno certo i lavoratori a vincere. Nel frattempo l’Ucraina rischia di sprofondare in un buco nero, sia politico e sociale sia finanziario: l’attuale tendenza economica del paese fa presumere che in un futuro non lontano possa concretizzarsi l’eventualità di una bancarotta, che renderebbe l’Ucraina dipendente dai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, con la contropartita dell’austerity e dei tagli al welfare. Le presidenziali del 25 maggio hanno visto trionfare il miliardario industriale della cioccolata Petro Poroshenko, filo occidentale e contrario alla soluzione federale. Poroshenko gode dell’appoggio americano. Sarà capace di convincere gli interlocutori europei dopo il terremoto del voto, di riunificare il paese e di fermare la deriva filorussa nell’est? Staremo a vedere.