Cucitrici, tagliatrici, scarnitrici, alcune caporeparto, qualche impiegata, con figli piccoli e genitori anziani, nubili e sposate, alcune iscritte al sindacato, in tutto 100, impiegate nel distretto del mobile murgiano: sono loro le protagoniste della ricerca presentata oggi (4 marzo) da Fillea e Cgil a Bari, nel corso di un convegno che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Walter Schiavella, segretario generale della Fillea, Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, Serena Sorrentino, segretaria confederale Cgil, Nunzia Natuzzi, responsabile risorse umane dell’azienda di famiglia, Letizia Carrera, coordinatrice della ricerca e docente di sociologia dell’Università di Bari.

Indagare le condizioni di lavoro delle lavoratrici impegnate nel settore della manifattura salotti, e individuare strumenti e proposte per affrontare il tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per far crescere l’occupazione femminile: questo l’obiettivo della ricerca, che ha coinvolto le lavoratrici delle aziende Delta Salotti, Incanto Group, Incanto Salotti, Itacart, Natuzzi e Piedi Arredamenti.

Un territorio, quello della Puglia, che non si discosta dal resto del Paese e del Mezzogiorno per la gravità del fenomeno della disoccupazione e dell’inattività femminile, che rappresenta un dato strutturale, solo acuito da questi otto anni di crisi. Una falla storica del sistema-Italia, caratterizzato da un “welfare largamente inefficace”, che “assume implicitamente le famiglie, cioè le donne, come propri partner per le funzioni di cura – si legge nel testo della ricerca –. Le donne appaiono così, soprattutto agli occhi dei loro potenziali datori di lavoro, risorse deboli e costose, visto che tutti gli impegni legati non solo alla maternità in senso stretto, ma in generale ai compiti di cura dei propri familiari, diventano necessarie assenze da lavoro o minore disponibilità a trasferte, straordinari e incarichi fuori sede”.

Ma sono le donne stesse a orientarsi, fin dalle loro scelte formative, verso percorsi che immaginano compatibili “con il loro ruolo domestico di mogli e di madri (e successivamente di figlie di genitori non più autosufficienti), rivolgendosi spesso a settori a bassa produttività e poco retribuiti”. Il vero nodo problematico del rapporto tra donne e lavoro è dunque quello della possibilità di attivare efficaci strategie di conciliazione, “affiancate da un profondo lavoro di rinnovamento culturale che contrasti la persistenza delle tradizionali rappresentazioni di genere che vedono ancora le donne come destinate per natura ai compiti di cura domestici”.

Giocoliere del tempo
In assenza di un welfare adeguato, le donne sono costrette quasi sempre a pesanti rinunce e la stessa maternità da esperienza assolutamente positiva e fonte di realizzazione personale, diventa un problema con il quale fare i conti, alla ricerca di una difficile conciliazione tra aspirazioni individuali e aspettative sociali. Conciliazione che è diventata negli ultimi decenni ancor più complicata, perché “le scelte di welfare che caratterizzano l’esperienza italiana, vanno tutte nella direzione di una profonda disattenzione alla famiglia stessa, che rimane così investita da un evidente sovraccarico funzionale, che si ribalta, a sua volta, quasi tutto sulle spalle delle donne”.

Queste sono chiamate a occuparsi dei genitori anziani, o di quelli rimasti soli, svolgendo dunque ruoli di “mogli-madri-figlie”, non a caso definite generazione-sandwich. E se da una parte il welfare pubblico è sempre più lontano, dall’altra per le donne intervistate il lavoro continua a rappresentare una parte fondamentale dell’esistenza, anche al di là dell’aspetto economico. Ma le condizioni del lavoro sono in costante e continuo peggioramento, come si può leggere dalle testimonianze delle lavoratrici.

“Il clima di lavoro è peggiorato molto, si lavora sotto stress e pressione psicologica e questo incide molto sulla qualità del lavoro. È difficile essere sereni quando c'è paura di essere cacciati, sempre sotto minaccia dei caporeparto”. “Prima si lavorava più seriamente, in un'atmosfera tranquilla, ultimamente si lavorava con molta ansia. I responsabili avevano sempre gli occhi addosso sulle lavoratrici e soprattutto non c'è l'apprezzamento sul nostro lavoro”. “Tra le colleghe c'era una maggiore complicità, adesso siamo una contro l’altra”.

Ineluttabilità della condizione
Alcune delle risposte delle intervistate rendono con chiarezza il peso degli impegni domestici femminili già in assenza di figli, e quanto le donne stesse abbiano “naturalizzato” la loro condizione: ”Sì che ho problemi, dopo la giornata lavorativa mi dedico alla gestione dell'abitazione. Mi rendo conto che se fossi sposata o se ci fosse la presenza di figli diventerebbe difficile gestire (la casa) e sicuramente avrei bisogno di qualcuno che mi aiutasse”. “Per prendermi cura di mio marito gli preparavo il pranzo o la cena prima che uscissi, prima di andare a lavorare e poi lui si preparava da solo la cena e cenava da solo. Questo mi dava fastidio perché non è una cosa che dovrebbero fare gli uomini, noi donne che ci stiamo a fare altrimenti?!”.

Welfare pubblico e flessibilità
Le sollecitazioni delle lavoratrici pugliesi suggeriscono una riflessione “sulla formula mista pubblico-privato”, chiamando in causa forme di convenzione con gli asili nido e le strutture per l’infanzia presenti sul territorio, sia pubbliche sia del privato convenzionato”, una soluzione che però “richiede impegni condivisi da parte delle diverse realtà pubbliche e private presenti su un territorio, rendendo le strutture di cura a portata anche di famiglie che non hanno un reddito elevato ed evitando che la donna-madre sia costretta, per evitare costi spesso vicini all’intero ammontare del proprio stipendio, a ritirarsi dal mercato del lavoro”.

L’altra questione assai complessa è quella degli anziani non autosufficienti. Il crescente investimento su “interventi di tipo domiciliare ha ridotto il ricorso al ricovero in strutture residenziali, ritenendo che la forte presenza della famiglia nella cura e nella gestione dei problemi delle persone anziane, sia autosufficienti che non autosufficienti, sia sicuramente una risorsa per l’intera comunità”, ma questo si è trasformato in un ulteriore peso sulle donne. Anche qui, sottolineano gli autori della ricerca, occorre ripensare il welfare, costruendo forme di sostegno alla persona, capaci di ridurre questo peso.

Sul fronte dell’organizzazione del lavoro, part time e telelavoro possono essere strumenti in grado di consentire alle donne di conciliare più facilmente i loro ruoli, ma non devono trasformarsi in scelte “penalizzanti in termini di carriera o di eventuali incentivi e benefit decisi dall’azienda”, né vanno pensati solo per le donne, perché questo continuerebbe a mutuare “le tradizionali suddivisioni dei compiti di cura che resistono ancora negli attuali modelli culturali”, né va impedito di poter tornare al full time quando le condizioni di vita lo potranno permettere.

È proprio con questa filosofia che nella contrattazione nazionale dei comparti delle costruzioni, i sindacati hanno avviato un percorso virtuoso sul tema della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e dell’utilizzo del part time, aprendo una breccia, sopratutto nei comparti a maggiore presenza femminile, come quello del legno-arredo, nell’organizzazione del lavoro. Ma manca ancora il pezzo fondamentale dell’organizzazione del welfare pubblico. Come ricorda la ricerca, “serve un welfare territoriale in grado di aumentare significativamente la qualità del territorio stesso, con importanti ricadute sul piano economico, oltre che su quello sociale”.

Fondamentale un nuovo rapporto con le istituzioni, verso le quali le lavoratrici intervistate manifestano sentimenti segnati da sfiducia e distanza: diffusa la convinzione – e qui c’è anche un problema culturale – che i problemi di conciliazione siano privati: il bisogno quindi non si trasforma in domanda politica. Così come serve un nuovo rapporto con il sindacato, la cui percezione assume – da parte delle lavoratrici – molteplici sfumature: “Il sindacato fa già tanto, perché se non c'è un'organizzazione che difende tutti, ognuno è solo una voce che non ce la fa a gridare contro l’azienda, ma deve fare di più”. “Occorre che tutti e tutte capiscono quanto è importante essere difesi, che noi abbiamo il diritto di lavorare e di avere dei figli, che non deve essere un favore che ti fa l'azienda”.

L’analisi delle risposte delinea esplicitamente un quadro nel quale al sindacato si riconosce il compito fondamentale di fare un grosso investimento sul piano della comunicazione e delle azioni concrete di diffusione più capillare della cultura dei diritti. Azioni concrete, che vuol dire rafforzare la contrattazione di prossimità – in azienda e territoriale –, ma anche sviluppare una più forte azione “culturale”, che passa da un rapporto più diretto delegato-lavoratore, che è fatto di quotidianità, di coerenza, di solidarietà, di collaborazione. Un sindacato voce collettiva, come spiega bene una lavoratrice: “Mi sono iscritta per essere seguita e far sentire la mia voce senza espormi in prima persona. Perché, se la mia voce singola non può cambiare le cose, tramite un sindacato la situazione potrebbe essere cambiata”.