Ora che l’ordine del mercato regna finalmente ad Atene, è possibile una radiografia di ciò che l’Europa è diventata. La bella retorica europeista, sulle radici culturali comuni e sulla calda integrazione politica ormai alle porte, come inevitabile coronamento della fredda razionalità della moneta unica, urta con la realtà, che parla un altro linguaggio. Una strada verso un’Europa politica a impianto federale, con istituzioni di rappresentanza, partiti e soggetti sociali davvero di profilo continentale, è al momento pura utopia. Quello che esiste è solo uno spazio di mercato che si dà regole per la concorrenza e ricorre a una moneta comune per gestire gli affari. Altro, che vada al di là della ragioneria del mercato, non si intravvede.
 
La cessione della sovranità degli Stati sulla moneta e sul debito significa però la rinuncia preventiva alla politica economica. E uno spazio senza politica non può reggere. Tra mercato e Stato si era definito, nel corso del Novecento, un equilibrio dinamico che ora in Europa è saltato. Tutto a vantaggio del mercato e delle sue roccaforti tecnocratiche, impegnate nell’utopia dell’autogoverno dell’economico tramite la magia della libera concorrenza. Questa asimmetria strutturale tra mercato e politica è la ragione dell’impossibilità di un governo pubblico efficace dopo lo scoppio della grande contrazione economica.

L’America ha domato assai prima le onde della speculazione finanziaria, perché, nei momenti di crisi, dispone di risorse antiche: lo Stato, l’intervento pubblico a sostegno della domanda. L’Europa a fatica (con l’inventiva entrata in scena della Bce nell’acquisto illimitato dei titoli) è riuscita a placare le speculazioni dei mercati e l’impazzimento dello spread e del tutto impotente assiste all’incancrenirsi delle cause sociali della crisi. Dinanzi alla palese irrazionalità della cura imposta dalle autorità di Bruxelles alla crisi sociale (abbattimento del debito sovrano con le misure draconiane di austerità, con l’imposizione del pareggio di bilancio che, di fatto, comprimono la domanda, uccidono la crescita e rendono priva di ogni controllo la curva del debito pubblico), l’Europa si accanisce nella terapia folle.

Dietro la follia del rigore, che condanna i paesi del Sud alla decomposizione civile, c’è il calcolo del paese più forte e dei suoi alleati. Con la moneta unica, la Germania ha corretto un suo tradizionale punto di vulnerabilità (il marco troppo forte era un limite alla sua vocazione esportatrice) e ha tagliato le ali competitive dei paesi concorrenti (con una moneta più debole e con il ricorso periodico alla svalutazione per la vendita delle merci a buon mercato). Senza più rivali nella corsa ai mercati esteri grazie all’omogeneità della moneta, la Germania si avvale anche dell’asimmetria politica esistente in Europa, cioè della sua forza politico-istituzionale di Stato dalle grandi dimensioni che può decidere in autonomia le proprie sorti e può esercitare un’egemonia sulle dinamiche dell’Ue.
 
Lamentarsi contro la mancanza di cuore dell’élite tedesca, o dolersi per un’Europa che appare come terra di calcoli di potenza e di profitto e non dà segnali di bella solidarietà, è un vano esercizio sentimentale. In politica conta solo la forza, la capacità di mobilitazione di potenze antagoniste, non è consentito piagnucolare sulla cattiveria dell’avversario che segue il suo interesse immediato. La Germania è il paese egemone dal punto di vista geopolitico, è l’area più competitiva sul versante economico. E però la sua testa politica è riluttante ad assumere gli oneri, oltre che i vantaggi congiunturali, di un’integrazione a forte traino tedesco. Solo il risveglio della conflittualità sociale interna (per la ripresa di una domanda di consumo, di beni e servizi) e la tendenziale caduta della capacità di esportare le merci a tecnologia tedesca nei paesi europei, atterrati come potenziali consumatori delle marche teutoniche proprio dalle linee di austerità permanente dettate dalla Merkel, renderanno evidenti le contraddizioni del modello tedesco e palese la cecità della sua classe dirigente.

In attesa che nel medio periodo saltino le basi dell’egoismo tedesco e nordico, inducendo l’Europa a convergere sulla necessità o convenienza di nuove politiche, ai paesi del Sud condannati al declino non rimane che la lotta, la creazione di situazioni di emergenza. È quello che ha tentato di fare Tsipras. Per questo la sua sfida, tutta sul piano dell’emergenza politica, non economica, la sua disobbedienza doveva fallire. Però la strada che ha indicato resta valida. Ed è la sola che i paesi del Sud possano intraprendere: un recupero di sovranità, un’iniziativa forte per la rimodulazione del debito, una fuga dalla follia del pareggio in bilancio, una rivisitazione delle assurde cadenze temporali del fiscal compact.