L'Europa degli squilibri: mai, dal dopoguerra a oggi, il Vecchio continente aveva registrato, come in questi anni, un divario così pronunciato tra paesi forti e paesi periferici dell'Unione. In tutti i parametri: Pil, sofferenze delle imprese, occupazione e disoccupazione. Ma, seppur alla vigilia delle elezioni europee, il dibattito su questi temi sembra asfittico, congelato tutto limitato – non solo in Italia – nei lacci delle politiche interne degli Stati nazionali. Di questi temi si è discusso in una tavola rotonda organizzata a Rimini, nell'ambito delle iniziative precongressuali dedicate all'Europa (in omaggio a Federico Caffè, a 100 anni dalla nascita), il 5 maggio e che ha visto la partecipazione di Mauro Beschi,  Cgil, Laura Pennacchi, Coordinatrice Forum Cgil Economia, Emiliano Brancaccio, Università del Sannio,  Massimo Amato,  Università Bocconi e Danilo Barbi, segretario confederale della Cgil. Tutti gli interventi si sono trovati d'accordo su un aspetto: per salvare l'Europa occorre cambiarla.

Beschi ha rivendicato il merito della Cgil di “aver visto per tempo la gravità e la natura strutturale della crisi, legata all'esplosione delle diseguaglianze e a una redistribuzione del reddito da lavoro verso la rendita mai vista in queste proporzioni”. Miope la scelta dell'austerity, che ha finito per aggravare la crisi stessa, mentre “il Piano del lavoro della Cgil è stata una delle pochissime proposte messe in campo per superarla. Il fiscal compact in tempi di bassa crescita e disoccupazione è letale, mentre bisogna cambiare verso ai sistemi fiscali e puntare alla creazione di lavoro”.

Molto articolato e dettagliato l'intervento di Emiliano Brancaccio, il quale ha rilevato come le divaricazioni tra gli Stati dell'Europa mai sono state forti come in questi ultimi 5 anni
. “Mentre negli altri paesi l'occupazione scendeva, la Germania negli stessi anni ha creato un milione e mezzo di posti di lavoro”. L'attuale assetto dell'Europa è sostenibile? Sì, ma a patto di rinunciare alle politiche di austerity che “non stanno contribuendo a ridurre le diseguaglianze tra paesi delle unione ma le stanno accentuando. La stessa Germania da tempo applica una tremenda politica di deflazione dei salari, che negli ultimi anni è stata molto inferiore alla crescita dell'economia. In 14 anni il salario reale è in media rimasto al palo”. “Se il paese più forte dell'Unione attua una politica di questo tipo le condizioni di sopravvivenza dell'unione monetaria diventano alquanto fragili, anche perché la Bce spinge tutti in questa direzione che non è affatto virtuosa”.

Tra le ipotesi che Brancaccio indica per mettere fine alla rincorsa verso il basso dei salari e generare le condizioni per una ripresa “bisognerebbe pensare a un coordinamento europeo della contrattazione salariale, fissando uno standard retributivo che imponga una crescita delle retribuzioni almeno pari alla crescita della produttività”. Il senso è chiaro: senza ridurre le diseguaglianze tra i paesi l'euro non potrà resistere, “ma uscire dall'euro non sarà un paradiso”, ha concluso il professore.

Pennacchi ha sottolineato la gravità del fatto che, malgrado il rischio del crollo dell'euro non sia affatto scongiurato, “l'Europa e le sinistre continuano a dimostrare inerzia
. Con le politiche di austerity nemmeno gli obiettivi di risanamento saranno raggiunti”. Non solo: “Anche l'apparente ripresa di paesi come Spagna, Grecia e Portogallo è dovuta alla riduzione dei costi ottenuti con l'espulsione dai processi produttivi della forza lavoro. Se questo è l'obiettivo, assestare un colpo mortale al lavoro, esso va smascherato. E bisogna sopratutto rovesciare prospettiva: generare la crescita attraverso la creazione di lavoro e non con il suo abbattimento”. Tra le cose da fare, inoltre, c'è la mutualizzazione del debito dei singoli paesi, la trasformazione della Bce per permetterle di acquistare direttamente i debiti degli Stati e investimenti pubblici per rilanciare l'economia. Tutti obiettivi contenuti nel Piano del lavoro della Cgil”.

Per Massimo Amato bisogna “rimettere l'economia con i piedi per terra” e uscire da un dibattito schematico “euro sì”, “euro no”. “Occorre aprire un dibattito – ha sottolineato l'economista – su cosa vuol dire riformare l'euro in senso radicale. Serve un progetto forte di cooperazione tra gli Stati. Occorre riprendere in considerazione la proposta di Keynes a Bretton Woods del '44: la creazione di una camera di compensazione internazionale nel quale i debitori paghino i debiti, ma i creditori aiutino riversando nell'economia mondiale i loro surplus e non creando così squilibri”.

Il dibattito è stato chiuso dall'intervento del segretario confederale della Cgil, Danilo Barbi. Che ha ribadito: “La struttura dell'euro ha contraddizioni strutturali iniziali che vanno risolte: la questione è avere meccanismi di cooperazione che rendano l'Unione dinamica”. Non solo: bisogna interrompere una politica di austerity, precarizzazione e svalutazione dei salari, che sta creando una situazione “difficilmente sostenibile sul lungo periodo”. Per salvare l'Europa “bisogna cambiare l'Europa. E il governo italiano deve aprire una grande vertenza per rimettere in discussione il fiscal compact”. (s.i.)