Pubblichiamo un estratto da La solitudine di Berlinguer, Ediesse. Il libro di Adriano Guerra sarà presentato a Roma, giovedì 4 febbraio, ore 17.00, nella Sala delle Colonne di Palazzo Marini, Via Poli 19. Ne discutono con l’autore: Rosy Bindi, Luciana Castellina, Paolo Franchi, Emanuele Macaluso, Giuseppe Vacca.



Nato il 16 marzo 1978, il giorno stesso del rapimento di Aldo Moro, il nuovo governo Andreotti, basato non più sull’astensione ma sulla partecipazione diretta dei comunisti alla maggioranza, visse sino al 26 gennaio 1979, quando Berlinguer si presentò alla riunione dei leader dei partiti che appoggiavano il governo per annunciare che il PCI aveva deciso di ritirare il suo sostegno. Aveva fine così quella che Gerardo Chiaromonte, uno dei protagonisti di quel corso politico, definì, con una formulazione sostanzialmente inadeguata e anche ingiusta ma che finì col prevalere, un’esperienza drammatica e “alla fine perdente”. (…)

C’è stato chi, con le motivazioni più diverse, ha parlato di sconfitta irreparabile. A parlare di sconfitta fu del resto lo stesso segretario del PCI, nel corso della riunione della Direzione del partito del 25 maggio 1978 dedicata all’esame dei risultati delle elezioni che si erano svolte dieci giorni prima, e che si erano concluse con un forte arretramento comunista e con l’avanzata della DC. Parlare di sconfitta è dunque legittimo.

Anche ad altre voci è necessario però dare ascolto. A quelle che ad esempio invitano a non dimenticare che i governi di “solidarietà nazionale” hanno permesso al paese di isolare e di sconfiggere il terrorismo delle Brigate rosse e di contenere e anzi di battere un processo di inflazione che pareva galoppante, e di far questo senza colpire i redditi di lavoro e lo Stato sociale. Di fronte al fatto che il punto culminante dell’obiettivo che si voleva raggiungere – quello non già semplicemente di portare il PCI all’interno della maggioranza di governo ma all’interno del governo con propri ministri – è stato di fatto mancato, è però innegabile chiedersi se non si sia di fronte all’esito di una battaglia che in nessun caso avrebbe potuto essere vinta.

Tuttavia, se si mette troppo l’accento sulla conclusione negativa di quel corso politico, si dà un giudizio inadeguato e per vari aspetti fuorviante di un’esperienza che non può essere vista semplicemente nei termini di un’operazione politica di congiuntura.

Intanto perché non vi fu un “ritorno” del PCI all’opposizione: la differenza di fondo rispetto al 1947 stava nel fatto che questa volta il PCI era uscito dall’area di governo non perché allontanato per decisioni prese dall’altra parte dell’Oceano – e a provarlo sono i documenti americani dell’epoca, in primo luogo i rapporti della CIA –, ma per scelta propria. E poi perché l’esperienza si era chiusa in un quadro mutato, e mutato anche, anzi soprattutto, in conseguenza di quell’esperienza, per cui non è possibile parlare di restaurazione del precedente equilibrio.

A testimoniarlo nel modo più esplicito è stato Ugo la Malfa, che dopo l’uscita di scena di Andreotti aveva ricevuto da Pertini, il 22 febbraio 1979, l’incarico di formare un nuovo governo sempre di “solidarietà nazionale”. A questo scopo – ha ricordato Giorgio La Malfa, che ha ricostruito l’episodio che ebbe il padre a protagonista – il segretario del PRI ha cercato “una base di accordo politico fra i partiti della maggioranza” che offrisse al PCI “qualcosa di più di quanto Andreotti aveva offerto” seppure senza offrire alla DC la possibilità di accusare il presidente incaricato di “voler forzare il limite alla partecipazione diretta al governo di ministri comunisti”.

Praticamente La Malfa si dichiarò pronto ad assumere l’impegno “di procedere ad una consultazione periodica e sistematica dei leader dei partiti della coalizione” su tutte le questioni di rilevanza politica: qualcosa insomma “di maggiore importanza rispetto alla semplice presenza nell’esecutivo di un paio di ministri collocati in dicasteri marginali”. Il PCI, che aveva maturato “la decisione di ritirarsi dalla collaborazione con gli altri partiti della solidarietà nazionale”, non prese in considerazione la proposta.

E così per sua scelta la pagina politica che si era aperta col “governo delle astensioni” giunse alla fine. È dunque giusto dire che il PCI, sebbene si sia alla fine arrestato sulla soglia dell’obiettivo finale, senza essere riuscito cioè a collocare propri uomini nei dicasteri, ha però portato a conclusione con Berlinguer il cammino verso l’area di governo. Certo il discorso non può finire qui perché il PCI – come si è appena detto – non era un partito che esauriva i suoi obiettivi – la sua “missione” – coll’ingresso nel governo della Repubblica. Né si possono dimenticare le corpose ragioni – le carenze del PCI come “partito di governo” in una situazione nella quale il sistema continuava ad essere bloccato dalle strette del bipolarismo – che hanno consigliato, e anzi imposto, il ritorno all’opposizione. Nel luglio 1976 la conventio ad excludendum è stata però seppellita e quel che è avvenuto successivamente nel e del PCI, in Italia e nel mondo, appartiene ad una vicenda del tutto separata.