Nella nostra ricerca che si è basata sul dataset longitudinale Inps-Losai, abbiamo osservato i risultati del mercato del lavoro in una lunga fase della carriera lavorativa della prima coorte di individui interamente appartenenti al regime pensionistico contributivo. L’analisi ha mostrato come una quota molto elevata di individui subisca carriere poco favorevoli che determinano un limitato accumulo di contributi nello schema contributivo e che portano, dunque, al rischio di ricevere pensioni di importo limitato qualora la carriera non dovesse poi evolvere successivamente in modo più favorevole. Inoltre, confrontando per un periodo di tempo più limitato un numero maggiore di coorti, e includendo anche quelle che hanno iniziato a lavorare in prossimità della grande recessione, si è evidenziato come l'esposizione ai rischi nel mercato del lavoro, anche se osservati un una fase di carriera anziché in un singolo anno, sia cresciuta in misura rilevante fra le coorti più giovani. Da queste evidenze consegue che se le dinamiche di carriera individuali non miglioreranno nei prossimi anni – cosa di cui è, purtroppo lecito dubitare fortemente, in seguito al verificarsi dell’emergenza Covid-19 – una quota non trascurabile di lavoratori appartenenti al regime contributivo - in cui le prestazioni pensionistiche rispecchiano l'esito dell'intera carriera lavorativa - potrebbe ricevere una pensione di importo particolarmente limitato, nonostante una vita lavorativa relativamente lunga.

Allarme nuove povertà
I risultati dell’esercizio condotto in questo capitolo sono, dunque, molto preoccupanti. Di fronte a queste evidenze sembra urgente ragionare sull’opportunità e le modalità attraverso le quali si potrebbe modificare la formula di calcolo contributiva – anche in assenza di miglioramenti strutturali del nostro mercato del lavoro, purtroppo lungi dal verificarsi – in modo da garantire chi dovesse avere carriere particolarmente svantaggiate quantomeno contro i rischi più gravi di povertà economica da anziani.

Appare dunque opportuno riflettere sull’introduzione di strumenti che, senza stravolgere le logiche contributive (i cui indubbi pregi di natura sia micro che macroeconomica, sintetizzati nel paragrafo 3.1, non vanno affatto minimizzati), garantiscano tutela a chi, maggiormente esposto a episodi di instabilità contrattuale e retribuzioni particolarmente limitate, rischi di ritrovarsi da anziano in condizioni di disagio economico, pur essendo stato a lungo sul mercato del lavoro. Il sistema contributivo, con la sua logica attuariale e le sue tecnicalità, può dunque rappresentare una buona cornice per definire le regole di fondo del sistema previdenziale. La sua applicazione non implica, tuttavia, che, in modo trasparente, non ci si possa distanziare dalle sue regole rigide per far fronte ad alcune situazioni che dovessero comportare rischi di prestazioni particolarmente insufficienti.

Una soluzione pubblica
In questo quadro – consapevoli del fatto che una risposta al problema delle basse pensioni future può essere fornita solo all’interno del sistema pubblico, dato che nessuno schema privato riesce a fornire tutela a individui con carriere instabili e poco remunerate – si inserisce la proposta di “pensione contributiva di garanzia”, pensata da chi scrive ormai molti anni orsono, e più volte ribadita in varie sedi (Raitano 2011). La proposta nasceva proprio dalla constatazione che, diversamente dallo schema retributivo, nel contributivo pensioni di importo limitato possono aversi anche se la vita lavorativa non è stata breve. Per questo motivo la risposta dovrebbe essere di carattere previdenziale, basata cioè su una ridefinizione della formula di calcolo della pensione, anziché di tipo assistenziale come sarebbe una misura means tested di mero sostegno contro la povertà. La garanzia andrebbe poi fornita all’interno del sistema pubblico, dal momento che appare del tutto implausibile che un lavoratore svantaggiato possa risparmiare per garantirsi un maggior consumo da anziano ricorrendo alla previdenza privata.

In maggior dettaglio, si dovrebbe inserire nello schema contributivo – che andrebbe senz’altro mantenuto come cornice, perché incentiva a contribuire e stabilizza il bilancio previdenziale – un importo garantito, non uguale per tutti, ma legato agli anni di contribuzione (effettiva e figurativa o riconosciuta tale dai servizi per l’impiego, ad esempio anche per i periodi di formazione o di cura, così consentendo al Governo di dare un premio previdenziale, anche se solo sulla componente garantita, ad una serie di situazioni individuali che si volessero tutelare maggiormente) e all’età di ritiro, in modo da rendere l’importo coerente con la logica del sistema stesso, che mira a premiare chi lavora o è disposto a farlo di più (e quindi col principio del “making contribution pay”).

Che tipo di garanzia
La garanzia potrebbe, ad esempio, essere pari a 14.000 euro annui lordi in caso di riti­ro a 66 anni e 40 di anzianità, da ridurre o aumentare proporzionalmente in caso di carriere meno o più lunghe, tenendo conto degli anni di contribuzione e dei coefficienti di trasformazione alle diverse età di ritiro, ad esempio a 11.000 euro a 63+35 o 15.250 euro a 69+39. Ogni qualvolta, per una data combinazione di età e anzianità, la pensione contributiva a cui si ha diritto in base ai propri contributi fosse inferiore alla prestazione garantita, essa verrebbe integrata nella misura della differenza fra queste due grandezze.

Il finanziamento dell’integrazione sarebbe posto a cari­co della fiscalità generale (ma si potrebbe pensare anche a forme di finanziamento specifico, differenziando di qualche punto aliquota di finanziamento e di computo dello schema contributivo) e comporterebbe un aggravio per il bilancio pubblico unicamente negli anni di corresponsione della prestazione integrata (quindi, trattandosi di un’integrazione da applicarsi nel solo schema contributivo, all’incirca dal 2040 in poi, quando la “gobba” della spesa pensionistica italiana dovrebbe attenuarsi sensibilmente). La maggior spesa dipenderebbe dal livello di fissazione della soglia garantita e dall’evoluzione delle dinamiche di carriera individuale, che condizionano la probabilità per i lavora­tori di ricevere prestazioni contributive inferiori ad essa. Tale maggior spesa sarebbe in parte compensata dai minori esborsi per prestazioni assistenziali, che verrebbero altrimenti erogate ai pensionati poveri e, inoltre, sarebbe significativamente attenuata laddove si procedesse contestualmente ad estendere ulteriormente gli ammortizzatori sociali (che, offrendo contribuzioni figurative, aumentano il montante contributivo) e a rendere più efficaci le politiche del lavoro e il controllo delle forme di lavoro sottopagate o falsamente autonome. 

Obiettivo al minimo costo
Dal punto di vista della target efficiency (raggiungere l’obiettivo desiderato al minimo co­sto), l’introduzione di una simile misura appare auspicabile dato che – diversamente da una pensione di base, che fornisce una prestazione di uguale importo per tutti, indipendentemente dalla precedente storia individuale, o da una misura assistenziale means tested – consente di realizzare un “fine tuning” dell’intervento rispetto alle caratteristiche individuali: si andrebbe infatti a tutelare (ex post) esclusivamente chi abbia avuto una carriera lavorativa lunga, ma fragile. Al contempo, si minimizzerebbero i disincentivi alla prosecuzione dell’attività da parte dei lavoratori (crescendo sia la pensione contributiva che la prestazione garantita con l’allungamento della carriera individuale) e lo stesso impatto sul bilancio pubblico (si noti, invece, che un sistema privo di garanzia incentiverebbe l’evasione contributiva da parte di chi pensasse di non raggiungere una pensione di molto superiore all’assegno sociale).

Ripensare il concetto di equità
Ad ogni modo, al di là dei dettagli della misura che andrebbe introdotta per migliorare l’adeguatezza delle pensioni future, è importante che nel dibattito si sgombri il campo da un serio equivoco sulla natura normativa dello schema contributivo e che deriva dall’utilizzo del termine “equità attuariale” con riferimento alle tecnicalità di tale schema. Il contributivo è, come detto, da alcuni ritenuto “equo”, perché prevede lo stesso tasso di rendimento per tutti gli appartenenti a una determinata coorte e in quanto è attuarialmente neutrale rispetto alle scelte individuali. Tuttavia, l’equità attuariale non va confusa con la giustizia distributiva: chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo attuariale di controprestazione sta implicitamente accettando come “giusta” e immodificabile qualsiasi situazione che si crea nel mercato del lavoro. In realtà, i tratti del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da molteplici diseguaglianze salariali e contrattuali – oltre che nelle stesse condizioni di salute – inducono a ritenere che molte delle differenze nelle storie lavorative non siano il risultato di un “giusto” processo di mercato che vada quindi cristallizzato negli importi pensionistici. Una buona politica dovrebbe cercare di modificare i processi ingiusti e, in attesa di ciò, dovrebbe quantomeno evitare che gli esiti ingiusti di mercato condizionino anche i trasferimenti pensionistici pubblici.

Michele Raitano insegna Economia alla Sapienza di Roma ed è un esperto di sistemi previdenziali