Smart working, insieme a lockdown, è una delle parole più usate negli ultimi dieci mesi. Ovvero è sulla bocca di tutti. Non occorre tradurla (infatti, nessuno lo fa), il suo significato è chiarissimo. Dei contenuti che questa parola porta con sé è sentire comune che i vantaggi siano più degli svantaggi, che la gente pratichi questi spazi con piacere. E che tutti lavoreranno – pardon, lavoreremo – molto più volentieri. Le fonti sono numerose. Lo spiegano bene la Confindustria, il Sole 24Ore.

Grosso modo sulla stessa scia si situa il recente studio di Domenico De Masi (Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente, Marsilio, Venezia, 2020) che, peraltro, in Italia è uno dei pochi che conosce a fondo il tema. A me hanno insegnato a diffidare delle generalizzazioni. Vediamo di provare ad assumere un altro punto vista, meno entusiasta e più cauto, che introduca qualche dubbio nella interpretazione largamente prevalente sulla stampa e sui social. Ciò riguarda le qualità più o meno taumaturgiche dello smart working.

È un fatto che nel corso del 2020 esso è aumentato tantissimo. Le cronache ricordano che secondo l’Istat il personale occupato in remoto era l’1,2% nei mesi di gennaio-febbraio in Italia, mentre nei mesi di marzo-aprile si passa all’8,8%. Lo scarto è ancora maggiore se consideriamo gli impiegati nelle grandi imprese: a febbraio la quota era di poco superiore al 30%, mentre nei mesi di marzo e aprile sale vertiginosamente al 90%, significa che 9 impiegati su 10 lavoravano online, praticamente tutti. Nel giro di poche settimane – posto il Paese in lockdown – il lavoro impiegatizio è stato trasferito di fatto dagli uffici alle abitazioni delle persone: uomini e donne; giovani, adulti, anziani; persone vicine alla sede dell’impresa e persone lontane da quella sede; persone con nuclei familiari impegnativi, con nuclei familiari leggeri, senza nuclei familiari. Insomma, un vasto arcipelago di persone, con tutto il carico di umanità che esso porta con sé.

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Beninteso, faccio riferimento a una popolazione di lavoratori, dato lo shock pandemico, ai quali è stata offerta “una via di fuga”, ovvero quella di difendersi stando nelle proprie case; mentre altri hanno dovuto proseguire a lavorare in fabbrica, rischiando la pelle: la propria e quella dei loro congiunti (ecco un’altra parola che è balzata gli onori delle cronache). Una quota significativa del lavoro è stata trasferita dagli uffici alle abitazioni dei singoli impiegati e/o tecnici. Così: sic et simpliciter. Le ragioni sono ben note e per tanti versi comprensibili, ma per favore non pensiamo che ciò sia uno scatto di civiltà delle imprese dovuto a un non meglio identificato istinto a migliorare la qualità della vita di chi le abita. In maniera molto più prosaica è soltanto un modo degli industriali per mettersi al riparo dalle conseguenze catastrofiche indotte dalla pandemia.

Lo smart working, quello legato a una revisione del processo organizzativo, produttivo e culturale, e delle relazioni contrattuali nei luoghi di lavoro è un’altra cosa. Patrizio Di Nicola lo aveva già scritto a chiare lettere in tempi non sospetti quando invocava di non fare confusione tra telelavoro e smart working (leggi qui). Quello che ad oggi tutti chiamano smart working è soltanto un modo per lavorare da casa, visto che non è possibile andare in ufficio. Tutto qui. Non apre nuovi orizzonti. Non delinea cambiamenti organizzativi epocali. Non è il segno di un management illuminato. È la risposta alla pandemia, al contrario, di un management miope e codino. Costituisce una reazione improvvisata che ancora una volta è possibile interpretare in termini di stratificazione sociale e politica. La stratificazione interna alla manodopera si annida nel fatto che chi ha potuto è rimasto a casa a lavorare; di contro, gli altri sono stati sospinti a recarsi in fabbrica e negli uffici perché facenti parte integrante dei servizi produttivi “essenziali”.

Reputo un passaggio incoraggiante il recentissimo rinnovo del ccnl della categoria degli alimentaristi. Questo richiama alla necessità di impedire che esistano lavoratori di Serie A e lavoratori di Serie B, con l’intento di evitare il rischio – a mio parere sempre strisciante – che il lavoro da remoto sia una modalità che ancora una volta mette in crisi la coesione di un universo di per sé già molto provato da fratture endogene. Viene richiamata in maniera ufficiale la figura dello smart worker con un esplicito riferimento alle problematiche della salute e della sicurezza, che evidentemente sono le ragioni su cui poggia la inusitata e massiccia presenza dello smart working tra la gente comune. Poco più avanti ci si occupa dei problemi della genitorialità e assistenza familiare, che il lavoro svolto da casa ha reso ancora più drammatici. Ha reso cioè più visibili i ruoli sociali di genere che sembrava stessero perdendo quota. È un fatto che i soggetti che hanno pagato il prezzo più alto del lockdown sono state e sono le donne, soprattutto se con figli piccoli.

Siamo, tuttavia, in un sistema socioeconomico in cui non è consentito rallentare e, men che meno, fermarsi, perché il modello di produzione lo impone, gli industriali lo richiedono, la concorrenza lo reclama, la politica lo caldeggia. Insomma, lo impongono quasi tutti. Tranne gli operai. Ecco un’altra parola riemersa alcuni mesi fa dalle nebbie dell’immaginario collettivo. Gli operai. Oltre otto milioni e mezzo di persone (Osservatorio Inps, 2017).

Strano ma costoro parevano evaporati nel grande magma della società postindustriale. E invece non è così. Gli operai “sono gente come noi e non è vero che hanno l’esclusiva dello sfruttamento” (Giorgio Gaber, Gli operai, 1972). Sono ancora qui, a difendere certe posizioni e a garantire la sopravvivenza economica al nostro Paese. Vietato fermarsi, quindi. Siamo in un ingranaggio globale, la globalizzazione appunto, che non consente ripensamenti, bensì soltanto sapienti espedienti per superare un impedimento legato alla logica del profitto e alla sua marcia inarrestabile. Forse siamo tutti vittime del sistema messo in campo: tanto i poveri quanto i ricchi; gli uni mossi dalla necessità di soddisfare bisogni essenziali, gli altri sospinti dal desiderio di avere, e avere sempre di più. Tutto avviene mentre la classe media subisce “smottamenti” preoccupanti.

Eppure basterebbe ascoltare le parole di Tiziano Terzani, e non solo le sue (penso a Fratelli tutti di Papa Francesco), quando parlando dell’economia dichiara: “Oggi essa è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose perlopiù inutili, e che altri lavorano a ritmi spaventosi per poter comprare” (qui il video). Lo smart working, quindi, non è la panacea di tutti i mali. All’inizio accennavo al fatto che questa interpretazione ha un largo seguito presso istituzioni e settori dell’opinione pubblica importanti. Credo che occorra guardare a certe innovazioni con maggiore spirito critico e chi pensa che siamo di fronte a eventi risolutivi, di certo sottovaluta almeno le criticità qui richiamate.

Renato Fontana è docente presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale – Sapienza Università di Roma