Lavorare in somministrazione significa avere un contratto come gli altri, ma non gli stessi diritti. Fare lo stesso lavoro degli altri, ma non avere lo stesso trattamento. Stare in un’azienda come gli altri, ma non potersi mai sentire parte di un gruppo. Sempre un po’ in prestito, come se si dovesse continuamente dimostrare qualcosa a qualcuno. E dire che i somministrati, almeno 600mila in Italia secondo il sindacato di categoria che li rappresenta Nidil Cgil, sono i meno precari tra i precari, i meno atipici tra gli atipici. Perché chi è assunto da un’agenzia per il lavoro, ex interinale per intenderci, ha un rapporto subordinato, con tutto ciò che di positivo questo comporta, a tempo determinato o indeterminato.

E allora? Allora, anche se la legge dice che il lavoratore in missione in un’azienda utilizzatrice ha diritto ad avere le stesse condizioni dei suoi colleghi dipendenti diretti, secondo quanto previsto dal contratto collettivo di settore, quasi mai è così. Si chiama “parità di trattamento” e significa, appunto, che per tutta la durata della missione le condizioni economiche e normative devono essere complessivamente non inferiori a quelle dei lavoratori di pari livello. “Nei fatti le mansioni sono le stesse, i diritti no – racconta Elena Pagni, 35 anni, Rsu Nidil Cgil al Pignone di Firenze, una laurea in sviluppo e cooperazione, esperienze all’estero per Ong e Comunità europea -. Vi faccio qualche esempio. Abbiamo un fondo sanitario che offre prestazioni nettamente inferiori rispetto a quello dei dipendenti diretti. Possiamo frequentare i corsi di formazione organizzati dalle agenzie, che valgono poco o niente, ma non quelli che fa l'azienda.

 

 

 

Inoltre, di solito i somministrati non fanno carriera, non superano mai un certo livello, da un punto di vista dell’inquadramento. “Anche se coordini un team, se formi altre persone, se sei bravo e hai tutti gli skill, rimani sempre al di sotto di un certo livello – spiega Elena -. È come se l’azienda ti dicesse tutti i giorni: questa lavoratrice è nostra ma non è poi tanto nostra. Alla fine pensi che non vogliano investire su di te, e ti chiedi perché”. Poi c’è il fattore tempo. Nel caso di Elena come in quello di tanti altri.

Lei è entrata in missione al Pignone a tempo determinato nel 2013, dopo un anno l’agenzia l’ha assunta a tempo indeterminato. Lavora lì da allora. Otto anni di precariato. “Un collega che è con me al Pignone, anche lui Rsu, è in somministrazione da 15 anni – dice Elena -. È una cosa inaccettabile: se vado bene, l’azienda mi deve assumere, o almeno così dovrebbe essere. È vero che è a posto con la legge, e cioè non supera la soglia del 20 per cento di somministrati rispetto alla sua forza lavoro, ma la quesitone è il tempo. Ogni giorno ti dicono: il tuo lavoro non è male, però io non riesco a assumerti perché la società ha altre priorità, o forse è anche un po’ colpa tua. E allora tu contini e vai avanti nella speranza che si avveri una variabile aleatoria che non crea valore aggiunto ma frustrazione e risentimento. Sempre in bilico, non ti senti né carne né pesce, alla fine non sai qual è la tua identità lavorativa”.

Nella stessa situazione, di “parcheggio” autorizzato, anche se con una storia diversa, si trova Emanuela Baldassarre, 40 anni, Rsa Nidil Cgil, una laurea in scienze politiche, una magistrale in relazioni internazionali, da 12 in somministrazione. “Ho iniziato in un contact center tramite agenzia interinale, un call center di lusso dove ricevevo le telefonate da clienti diciamo di fascia alta, notai, imprenditori, commercialisti: un’esperienza bellissima – ricorda Emanuela -. Non avevamo il premio di produzione, non facevamo il brindisi di fine anno, però avevamo un buon contratto, con tutti i diritti, i buoni pasto, una bella sede, insomma eravamo equiparati ai dipendenti diretti. Quando è arrivata la riforma Madia, che ci ha costretto a chiudere, lavoratori e servizio sono stati esternalizzati. È iniziata la mia vera avventura nel variegato mondo della somministrazione, la mia vita da operatrice telefonica, tre minuti al massimo a chiamata, sempre di corsa e sotto pressione. Era il 2017. Un’esperienza bruttissima che non è mai finita”.

 

 

 

Emanuela e i suoi colleghi hanno iniziato ad avere contratti pirata, non riconosciuti da Cgil, Cisl e Uil, applicati strizzando l’occhio alle aziende per vincere i bandi al massimo ribasso. Dapprima a tempo determinato. “Ci siamo attaccati ai cancelli e abbiamo spuntato il tempo indeterminato – dice -. Poi abbiamo lottato per ottenere un contratto diverso dal quello delle pulizie, che fosse più coerente con la nostra figura e dopo tre anni ci hanno dato ragione. Quando abbiamo cambiato di nuovo società siamo riusciti a farci dare un superminimo non riassorbibile, in modo da arrivare al minimo contrattuale stabilito dalla legge”. Adesso è in scadenza il bando per cui lavora, e la committente ha deciso di affidare il servizio a Consip, la centrale per la pubblica amministrazione. “Non sappiamo che cosa ne sarà di noi: questa è la favola dell’indeterminato che non è un vero indeterminato. Vivi sempre appesa ai bandi, alle scadenze”.

Lavorare fino agli ultimi centesimi di una commessa, in attesa di un rinnovo, di quella successiva, ma davanti c’è sempre l’incertezza. La legge prevede che tra una missione e l’altra il lavoratore a tempo indeterminato resti a disposizione dell’agenzia e che nel periodo di non lavoro percepisca un’indennità di 800 euro, il cui importo e modalità sono disciplinate dal contratto collettivo di settore. Per sei o al massimo 8 mesi, durante i quali l’agenzia è tenuta a fare al lavoratore almeno tre proposte congrue. Dopodiché c’è il licenziamento. “Per difendere il posto con i colleghi mi metterò di nuovo il cappellino, inforcherò il megafono, insomma il kit del somministrato sindacalizzato, che per me è stata una bella palestra – conclude Emanuela -. Dopo 12 anni di call center in somministrazione però sono stanca. Poi è arrivata la pandemia e ho pensato che sono fortunata ad avere un lavoro. Ma io vorrei un contratto vero, come mia madre, solo questo, un lavoro stabile che mi permetta di programmare un po’ la vita”.