Da un anno a questa parte l’Italia registra un generale peggioramento degli indicatori economici, e attraversa una fase di sostanziale stagnazione, complice la congiuntura internazionale ma con un differenziale di crescita rispetto alla Ue tale da indicare chiaramente come le politiche del governo non stanno andando nella giusta direzione e minacciano piuttosto di riportarci indietro di anni. All’interno di questo quadro nazionale si corre il rischio, come già avvenuto durante la crisi economica, di mettere in secondo piano una delle ragioni strutturali per cui facciamo fatica a rialzarci: il divario di sviluppo enorme tra le diverse aree del Paese, ed in particolare tra il Mezzogiorno e il Nord.

A distanza di un oltre un anno dall’inizio della nuova legislatura dobbiamo constatare come il Sud sia stato ancora una volta relegato ai margini del dibattito pubblico e dell’iniziativa di governo. Le poche politiche specifiche messe in campo si limitano alla conferma di alcuni strumenti introdotti in precedenza, prevalentemente incentivi alle imprese di natura fiscale, mentre si riducono ancora le risorse destinate agli investimenti e alla coesione. In legge di bilancio sono state ulteriormente dilazionate nel tempo le risorse del Fondo sviluppo e coesione, fermo a una percentuale di impiego ridicola, appena mezzo miliardo, neanche il 2% del totale disponibile.

Manca una visione complessiva delle esigenze di sviluppo dei territori e sembra ridursi tutto ad un tentativo di migliorare l’efficienza nell’uso delle risorse europee, come confermano anche le recenti dichiarazioni del ministro Tria, annunciando un “piano per il Sud” di cui al momento non c’è traccia e che appare coincidere quanto a tempistiche e risorse dichiarate con l’avvio della nuova programmazione dei Fondi europei.

Programmare ed utilizzare bene le risorse europee per la coesione è indispensabile ma non sufficiente, in assenza di adeguate politiche ordinarie. Le Regioni del Sud ricevono ogni anno oltre un miliardo in meno di risorse ordinarie rispetto a quanto dovrebbero in percentuale alla popolazione, il tasso di disoccupazione è il triplo del Nord e il doppio del Centro: 18,5% contro 6,6% e 9,6%, l’inattività è al 45,5% contro una media nazionale del 34,3% (dati Istat riferiti al 2018) e mancano ancora 300 mila occupati rispetto al periodo pre-crisi.

Al netto delle differenze interne alle differenti aree del Mezzogiorno, che pure esistono in misura rilevante, questi dati aggregati dovrebbero da soli suggerire l’urgenza di interventi strutturali che puntino alla ripresa degli investimenti pubblici, anche come leva per quelli privati, e alla creazione di buona occupazione.

L’altro aspetto grave della condizione occupazionale nel Mezzogiorno infatti, al di là del dato quantitativo, è che è esploso il lavoro povero, sotto retribuito e irregolare. Le retribuzioni orarie nette dei lavoratori dipendenti sono aumentate al Nord tra l’1,5 e il 2% e si sono ridotte al Sud di quasi un punto e mezzo percentuale nel periodo 2008-2017. Anche a fronte di un aumento relativo degli occupati, infatti, non si è registrata una corrispondente riduzione della povertà, mentre una parte consistente dei nuovi contratti attivati, in linea col dato nazionale, è rappresentata da part-time involontari.

A fronte di un quadro già di per sé abbastanza fosco, che vede invertirsi anche i timidi segnali di ripresa degli anni scorsi, anziché moltiplicare gli sforzi per colmare il divario territoriale è emersa nell’iniziativa governativa l’ipotesi del regionalismo differenziato, che per i tratti assunti si sta configurando come una vera e propria minaccia alla coesione e all’unità sostanziale del nostro Paese.

Già oggi la mancanza di uniformità nell’accesso ai servizi, istruzione e sanità in primis, costituisce una grave ferita sociale: in molte aree del Mezzogiorno il tasso di abbandono scolastico supera il 20%, il doppio del Nord, e quasi il 50% degli adulti residenti nel meridione ha bassi livelli di istruzione; solo il 5,4% dei bambini usufruisce di servizi per l’infanzia contro il 17% del Centro-Nord, mentre il fenomeno delle migrazioni sanitarie verso i poli di attrazione del Centro-Nord è in costante aumento.

La garanzia piena dei diritti essenziali dei cittadini non può essere tema demandato alle singole Regioni, in mancanza di leggi di principio, livelli essenziali delle prestazioni e meccanismi efficaci di perequazione delle risorse, posto che questo rappresenta anche un elemento essenziale di sviluppo nazionale: l’infrastrutturazione sociale dei territori è una precondizione per garantire la convergenza del Sud.

Occorre ribaltare la logica di divisione e particolarismo che sembra animare le politiche del governo, a dispetto della retorica nazionalista, e tornare a considerare il Mezzogiorno una leva fondamentale per lo sviluppo del Paese, un’opportunità di crescita sostenibile che può trovare fondamento, tra le altre cose, nei vantaggi localizzativi di un’area che è affacciata sul Mediterraneo e potrebbe intercettarne i nuovi flussi commerciali.

Da questo punto di vista il ritardo nell’implementazione operativa delle Zes, e la mancanza di un piano complessivo di investimenti ad esse connesse, è un deficit da colmare quanto prima, tanto a livello di governo centrale quanto di quelli regionali, evitando anche in questo caso quelle logiche di campanile e concorrenza interna che impediscono una strategia nazionale compiuta sul sistema della portualità e conducono all’annacquamento sostanziale di questo strumento, con le Zone logistiche semplificate e l’ipotesi di estensione ai porti del Centro-Nord anche delle residue prerogative di vantaggio pensate per le Zes meridionali.

Serve, soprattutto, dare una nuova centralità alle politiche di coesione e di sviluppo del Mezzogiorno con una strategia e una visione complessiva che Cgil, Cisl e Uil hanno declinato unitariamente nella Piattaforma in vista della legge di bilancio. Con quel documento rivendichiamo investimenti pubblici nelle infrastrutture sociali, sanità, servizi sociali e istruzione; un piano di investimenti su opere infrastrutturali per connettere efficacemente territori e persone da e tra le diverse aree del Mezzogiorno; un rafforzamento delle amministrazioni pubbliche in termini di personale e competenze con un piano straordinario di assunzioni che ecceda il solo turn-over; interventi per la prevenzione, manutenzione e la messa in sicurezza; un nuovo modello di governance delle politiche industriali e di sviluppo per programmare e coordinare efficacemente gli interventi; misure per stimolare l’innovazione, la crescita dimensionale e l’accesso al credito del sistema produttivo meridionale, la messa in rete sinergica nei territori e nei grandi obiettivi strategici delle reti di ricerca pubbliche e private e un reale cambio di passo sulle Zone economiche speciali; una vera lotta al lavoro irregolare e alla criminalità.

È proprio su queste priorità, sulla necessità di rilanciare investimenti e occupazione di qualità, che il sindacato ha costruito unitariamente la manifestazione nazionale del 22 giugno a Reggio Calabria; una mobilitazione nazionale nel Sud, nella convinzione che proprio dal Mezzogiorno si deve ripartire per unire il Paese e rivendicare la centralità del lavoro come leva per contrastare le profonde diseguaglianze sociali, economiche e territoriali che attraversano l’Italia.

Jacopo Dionisio è responsabile Politiche per il Mezzogiorno e la coesione territoriale Cgil nazionale