“A casa non ci puoi più tornare, ti ricoveriamo”. Di solito sono queste le parole che una futura mamma dalla trentaquattresima settimana in poi si aspetta di sentire ad ogni controllo. Non si è mai davvero pronte a quella frase, ma Francesca (nome di fantasia) qualche giorno fa lo era ancora meno. Riccardo sarebbe dovuto nascere il giorno della festa del papà e lei sperava di tenerlo lì dentro al sicuro ancora per un po’. Sì, è vero, i reparti di ostetricia e ginecologia hanno un ingresso separato. “Ma siamo pur sempre a Milano, in un ospedale, e io ho trascorso le ultime settimane di gravidanza tappata in casa, per via dell’allerta Coronavirus”.

Francesca lavora nel settore del turismo, aveva optato per il congedo di maternità flessibile e concordato col suo datore di lavoro che sarebbe stata attiva fino al nono mese, in modo da averne cinque dopo il parto per stare con suo figlio. La preoccupazione di riuscire a incastrare al meglio carriera e maternità l’aveva indirizzata verso questa scelta, prima che l’emergenza sanitaria sconvolgesse, tra i piani di tutti, anche il suo. Il giorno in cui, finito il periodo di congedo, tornerà a lavoro chissà cosa troverà. Era convinta che sarebbe stata l’unica a dover recuperare a passo svelto, ma in uno scenario così imprevedibile e mutevole, il settore del turismo è stato già messo in ginocchio dalla crisi del Coronavirus.

Quando il 10 marzo Francesca si è recata in ospedale per un rapido controllo e per informarsi sulla possibilità di donare il cordone ombelicale, non l’hanno fatta più uscire. Liquido amniotico ridotto e la decisione di indurre il parto nelle prossime ventiquattr’ore. “Mio marito è corso a casa a prendere la valigia e io ho telefonato a mia madre, che sta in Calabria”. Secondo i programmi, sarebbe dovuta arrivare a Milano una settimana dopo, in prossimità dello scadere del tempo, ma Francesca si mette alla ricerca di un volo che possa portarle sua madre vicina nel più breve tempo possibile. “Il governo aveva stabilito proprio in quelle ore che i viaggi dovevano essere ridotti al minimo e motivati per iscritto, quindi non ero sicura che sarebbe riuscita a partire. La questione non era più arrivare in tempo, ma arrivare”.

Così, mentre nella notte migliaia di persone si precipitano, contro ogni logica e indicazione, alla stazione di Milano Centrale per andare più a sud, la madre di Francesca sale su un aereo quasi deserto, per correre da lei, con la speranza di farcela. Tutto avviene poi in maniera rapida, concitata, nel giro di una notte tutto si conclude per il meglio e nasce Riccardo: labbra carnose e occhietti già vispi che nulla sanno di quanto sta accadendo fuori, di essere venuti al mondo nel bel mezzo di una pandemia. Solo dopo la prima, magica, notte con suo figlio, Francesca si rende effettivamente conto di quello che succede intorno a lei: “La cosa peggiore è stata avere la percezione di non capire, vedere sui social che le persone stavano chiuse a casa, ma poi si affacciavano a cantare, mentre nei corridoi dell’ospedale gli sguardi delle persone sono terrorizzati”.

Francesca racconta di un filo sottile ma continuo tra normalità e apocalisse, “mentre tu fai nascere la vita, in ospedale le celle frigorifero non bastano e senti che le stanno chiedendo alla grande distribuzione, perché non sanno dove mettere i morti”. I nonni hanno potuto conoscere Riccardo solo in un rapido incontro, entrando uno alla volta e con la mascherina, perché sono persone grandi. Nessun’altra visita consentita. Francesca e suo marito non vedono l’ora di uscire da lì, per tornare a casa, ma il piccolo ha un po’ di ittero e deve restare un giorno in più del previsto. L’angoscia si fa un po’ sentire, soprattutto quando, senza spiegare perché, a Francesca viene comunicato che nessuno può più entrare. Poi la conferma di un sospetto che fa battere forte il cuore: “Mi hanno fatto capire che c’era un caso di una donna incinta risultata positiva. Sono arrivati tanti segnali che mi avevano già fatto mettere insieme i pezzi, poi è arrivata la notizia”. Non è stato facile mantenere la calma in questa situazione di incertezza, in cui medici, infermieri, ostetriche e neonatologi devono tenere insieme il lavoro ordinario e l’emergenza, anche in un reparto in cui forse si pensava (o sperava) che non sarebbe arrivata.

Francesca, ora finalmente a casa con suo marito e il piccolo Riccardo, ripensa alla situazione paradossale che ha appena vissuto e che, dice, “forse è complicato associare a una guerra, perché nell’immaginario collettivo un conflitto vuol dire povertà, distruzione visiva. Questa guerra contro un nemico invisibile, invece, è vestita di serie tv, social media e vacanze forzate”. Francesca guarda suo figlio, ancora le viene da piangere a pensare che è lì con lei. Un giorno, quando sarà più grande, gli racconterà delle circostanze in cui è nato. Come fosse l’incipit di un romanzo, nel bel mezzo di una pandemia.