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Federico Aldrovandi aveva 18 anni la notte del 25 settembre 2005 quando, durante un controllo di polizia a Ferrara, la sua città, è stato ucciso dagli agenti che lo avevano fermato. Chi oggi ha 18 anni, 20 anni fa non era ancora nato e forse conosce poco la storia di “Aldro” come lo chiamavano gli amici. Una storia che parla di giustizia, di battaglie civili, di memoria da tenere viva, di una famiglia che ha lottato, di amici che non sono rimasti in silenzio di fronte a una narrazione impossibile da accettare.
Andrea Boldrini è uno degli amici che il 25 settembre di 20 anni fa passò la serata con Federico Aldrovandi per poi riaccompagnarlo in macchina vicino casa. Tra gli ultimi a salutarlo prima che l’impensabile accadesse.
“Siamo cresciuti tutti, siamo tutti quarantenni, quasi tutti con famiglie e figli e ci chiediamo: come sarebbe stato Federico? Avrebbe avuto dei figli?”, si chiede oggi Andrea Boldrini. “Federico è il nostro ricordo, un ricordo che ci unisce anche perché quando pensi a lui inevitabilmente pensi a quella età spensierata che per noi, purtroppo, si è fermata quel giorno lì”, prosegue nel racconto a Collettiva. “Il ricordo che ho di Federico – dice – è di un ragazzo di 18 anni, col quale ci vedevamo a scuola, ci vedevamo al pomeriggio, gli amici sono le persone che vedi di più a quell'età, ridevamo così tanto”.
L’amico di Federico: noi siamo cresciuti, lui è rimasto ragazzo
Sorride al telefono mentre ci parla di Federico a 18 anni, lui è cresciuto, è diventato un uomo. Federico è rimasto ragazzo, schiacciato dal peso di uomini in divisa, dalle botte accertate dalle indagini e dal processo: 54 lesioni ed ecchimosi sul corpo che hanno portato alla condanna per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” di quattro poliziotti.
Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri furono condannati a tre anni e mezzo di carcere nel 2009. In un secondo processo, l’Aldrovandi bis, il 5 marzo 2010 tre poliziotti – Paolo Marino, Marcello Bulgarelli, Marco Pirani – sono stati invece condannati per presunti depistaggi nelle indagini.
La battaglia per la verità e la giustizia
La gravità e l’ingiustizia di quanto era accaduto la famiglia e gli amici l’hanno percepita subito: “Quella mattina ci convocarono tutti in questura – racconta Andrea Boldrini – Ci trovammo lì tutti gli amici, anche chi la sera prima non c'era. Ci sembrò a tutti strano quello che ci stavano raccontando, sembrava veramente una cosa troppo lontana dal suo modo di essere, troppo lontana da lui”. Secondo i primi racconti, e i tentativi di protezione degli agenti intervenuti, Federico veniva descritto come fuori controllo e addirittura arrivarono a dire che si fosse da solo provocato la morte. Un racconto smentito poi dai fatti e dalle condanne, grazie alla battaglia che per prima la mamma di Federico, insieme al padre e agli amici hanno condotto per accertare la verità e fare giustizia.
Un passo è stato fatto ma c’è ancora tanto da fare
“Dietro una divisa, dietro un simbolo, c'è sempre una persona, lo Stato è fatto da persone che lavorano e come in ogni lavoro ognuno ha la sua maniera di farlo, c'è il lavativo dappertutto, c'è quello che rema contro dappertutto, oggi posso dire che ci sono alcuni uomini dello Stato che si sono assunti la responsabilità di quanto accaduto ma c'è ancora tanto da fare”, sottolinea Andrea Boldrini.
Come ha ricordato Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi durante un evento organizzato a Ferrara da Aser, Fnsi e Ordine Giornalisti oggi “ci sono leggi più restrittive, nulla che possa prevenire, se non l'informazione, non vedo qualcosa che lo Stato possa avere fatto per impedire che accadano tragedie come questa".
“Non è il Taser che cambia la situazione – rimarca Andrea Boldrini – ma ci sono alcune richieste fatte da associazioni che si si occupano di diritti umani, come Amnesty ad esempio, come l'inserimento dei numeri identificativi sulle divise e le bodycam, che potrebbero migliorare gli interventi e rendere più sicuro il lavoro degli operatori di sicurezza delle forze dell'ordine”. La sicurezza infatti riguarda sia chi è chiamato ad intervenire sia chi subisce l’intervento delle forze dell’ordine: “Le persone hanno bisogno di sentirsi sicure quando vengono fermate, senza la preoccupazione che possa sfociare in un dramma – sottolinea – Anche se si è alterati, anche se in quel momento non ci si sente bene, si deve essere sicuri che le forze dell'ordine ci diano un aiuto, non tutt'altro”.
Per questo secondo Andrea Boldrini “prima di tutto ci deve essere un'assunzione di responsabilità dei lavoratori appartenenti alle forze dell'ordine, questa richiesta deve venire dal basso, dai lavoratori, devono smetterla di credere agli slogan della politica riguardo al loro lavoro e alla loro sicurezza. La sicurezza non è una sicurezza del dopo, è una sicurezza preventiva, mettere il lavoratore nelle condizioni migliori per agire senza avere problemi, senza avere intoppi nel suo operato”. Solo così, conclude, “storie come quella di Federico saranno solo un tragico ricordo del passato”.
Nel 2025 rinasce il comitato Federico Aldrovandi
Il 2025 poi per gli amici di “Aldro” è un anno importante perché hanno deciso di ridare vita al comitato. Nato subito dopo l’uccisione per chiedere verità e giustizia, era trasformato in associazione dopo la condanna definitiva per proseguire – tra le altre cose – nella battaglia per l’inserimento del reato di tortura, l’assunzione dei codici identificativi e tenere viva la memoria.
Nel 2019 poi la madre di Federico – all’epoca presidente dell’associazione – chiese, per motivi personali, di sospendere l’attività. “Ci siamo riuniti quest’anno – spiega Andrea Boldrini – perché a 20 anni di distanza non ce la sentivamo di rimanere silenti, e la nostra la scelta nasce proprio dalla necessità di parlare ai giovani perché ci siamo resi conto che abbiamo tutti 40 anni ma siamo fuori da quel mondo che era nostro all'epoca, i giovani ignorano questa vicenda proprio perché non erano presenti. La nostra missione, quello che vogliamo fare quest'anno, ma anche in futuro, è di parlare ai ragazzi e alle ragazze di oggi. Lo abbiamo sempre fatto ma ne dobbiamo parlare di più, e c'è bisogno di parlarne nelle scuole”.