Lo scopo della Legge del 1978, quella che dopo una grande mobilitazione di lavoratori, cittadini, operatori sanitari, dette attuazione all’articolo 32 della Costituzione istituendo il servizio sanitario nazionale pubblico e universale, era e ancora dovrebbe essere rendere uguale su tutto il territorio italiano il diritto alla salute. Era, perché in realtà già oggi non lo è più, e lo sarà sempre meno se lo sciagurato progetto del ministro leghista Calderoli vedrà la luce.

Un rischio mortale

È esperienza vissuta: curarsi in Calabria è assai diverso che in Lombardia o Toscana. Non è un caso che le regioni del Sud Italia, in realtà, contribuiscono a finanziano la sanità delle regioni del Nord attraverso la migrazione sanitaria. Secondo la Fondazione Gimbe, che ha elaborato uno studio per documentarlo, l’autonomia differenziata in sanità darà il colpo di grazie al servizio. Afferma Nino Cartabellotta che della Gimbe è il presidente: “Aumenterà le diseguaglianze regionali e legittimerà normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute”.

Le differenze che già esistono

Secondo lo studio le diseguaglianze in esigibilità del diritto alla salute sono profonde e misurabile. Nel decennio tra il 2010 e il 2019 solo tre regioni hanno superato l’86% di soddisfacimento dei Livelli essenziali di assistenza. Guarda caso le tre che hanno già chiesto maggiore autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.  Tra quelle che si posizionano o superano il 76,6% non si trova nessuna regione del Sud e solo due del Centro (Umbria, Marche). Infine, tutte le regioni del Centro-Sud (eccetto la Basilicata) rimangono da 12-16 anni in piano di rientro e Calabria e Molise sono ancora commissariate.

Il commento

“Questi dati – sostiene Cartabellotta – confermano che nonostante la definizione dei Lea dal 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali, in particolare un gap strutturale Nord-Sud che compromette l’equità di accesso ai servizi e alimenta un’imponente mobilità sanitaria in direzione Sud-Nord. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le inaccettabili diseguaglianze registrate con la semplice competenza regionale concorrente in tema di tutela della salute”.

Cosa proprio non va

Mentre il Parlamento, dall’autonomia targata Calderoli, è esautorato da un rapporto diretto tra regioni e governo, mentre modelli sanitari già bocciati dalla pandemia come quello lombardo verrebbero premiati, i Lep - livelli essenziali delle prestazioni- strumento che almeno sulla carta (perché abbiamo appunto l’esperienza dei Lea) dovrebbero servire a dare una garanzia di diritti uguali per tutti e tutte ovunque, non sono stati definiti e tanto meno finanziati. Ma come è ovvio, per renderli davvero strumento di uguaglianza dovrebbero esser finanziati in maniera superiore proprio dove non ci sono o sono più deboli. E così dovrebbe essere per i Lea. Per ridurre i divari servono più risorse dove si è indietro. La filosofia del ministro leghista, invece, va esattamente nella direzione contraria. Afferma ancora Cartabellotta: “Il regionalismo differenziato in sanità finirà per legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Peraltro, in un momento storico in cui il Paese ha sottoscritto con l’Europa il Pnrr, il cui obiettivo trasversale è proprio quello di ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali”.

E non finisce qui

Sempre analizzando le ipotesi contenuto nel progetto Calderoli, la Fondazione Gimbe ritiene: “Alcune forme di autonomia rischiano di sovvertire gli strumenti di governance del Ssn aumentando le diseguaglianze nell’offerta dei servizi: sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione, sistema di governance delle aziende e degli enti del Servizio Sanitario Regionale, determinazione del numero di borse di studio per specialisti e medici di famiglia”. Non solo, ma se si assecondasse la richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del Ssn e di gestione del personale, regolando in maniera autonoma l’attività libero-professionale si rischierebbe di innescare un meccanismo di “migrazione” di medici e professionisti della salute dalle regioni “povere” a quelle ricche destinando inesorabilmente i cittadini e le cittadine meridionali a una sanità ancor più residuale. Ed è bene ricordare che in quelle regioni già oggi l’aspettativa di vita è più bassa rispetto al Nord.

Ciliegina sulla torta, questa sarebbe anche la fine del contratto collettivo nazionale e della contrattazione. Davvero un bel risultato: a pagarne le conseguenze non solo chi non vedrà rispettato il proprio diritto alla salute, ma anche medici e personale che rischiano di veder indeboliti i propri diritti di lavoratori e lavoratrici.