Membro della 29a Brigata Gap, il partigiano Luciano Lama agisce nelle province di Ravenna e Forlì. Così Sergio Flamigni ricorda il loro primo incontro: “Fu allora che, tramite i regolari collegamenti dell’organizzazione, Luciano Lama chiese di venire con noi per combattere i tedeschi ed i fascisti. Toccò a me esaminarne la biografia. Ci eravamo dati la regola che prima di ammettere nei ranghi uno nuovo, dovevamo esaminarlo attentamente, assumere tutte le informazioni possibili. A presentarmelo e a garantirlo fu uno che conoscevo come un bravo comunista, un ferroviere, amico e collega del padre di Luciano. L’incontro avvenne lungo un grande fosso, in mezzo ai campi di grano, nei pressi di San Leonardo; era presente anche un altro compagno. Parlammo a lungo. Rispose a tante domande. Man mano che parlava e raccontava, conquistava la mia simpatia. Notai che avevamo le stesse aspirazioni ideali di libertà  e giustizia sociale, gli stessi gusti culturali che si nutrivano di umanesimo (...) In quell’incontro Luciano mi disse che aveva saputo da poco che il fratello Lelio era stato fucilato a Stia, assieme a numerosi partigiani fatti prigionieri dai tedeschi durante un rastrellamento in montagna; parlava angosciato e si capiva che oltre alle ragioni politiche e ideali per combattere i nazifascisti aveva quel conto aperto e pesante da regolare”.

“Lo conobbi - ricorderà anni dopo Nino Larghi, ex funzionario della Camera del lavoro forlivese - quando comandava una formazione comprendente un centinaio di uomini dei gruppi di azione partigiana, i famosi Gap. Ricordo un particolare importante, che lo ebbe protagonista. Nel carcere di Forlì erano tenuti prigionieri una trentina di nostri compagni. Organizzare un assalto per liberarli sembrava un’impresa impensabile e impossibile. A Luciano venne un’idea: travestirsi da ufficiale tedesco, lui che oltretutto se la cavava bene con la lingua e, a ben guardare, aveva proprio l’aspetto di un tedesco. Assieme ad altri compagni, anch’essi in divisa, Lama riuscì ad entrare in carcere. Successivamente mi raccontarono che, trovatosi faccia a faccia con il direttore del carcere, dapprima confessò la propria identità  e dopo una accesa discussione lo convinse a liberare i detenuti”.

La partigiana Olga Guerra ha appena 17 anni quando comincia ad impegnarsi nella Resistenza forlivese. Una mattina arriva a casa sua un giovane malato che lei aiuta e ricorda così: “Una fredda mattina di fine inverno, quando fuori non c’era nessuno, arrivò un ragazzo. Era venuto, ci dissero, a cercare il fratello che da alcuni mesi era sulle nostre montagne. Lo portavano in due perché si reggeva a stento in piedi: alto, magro, gli occhi rossi per la febbre alta che lo sfibrava, il respiro affannato, non mangiava da diversi giorni. Capimmo che era molto grave, che aveva bisogno di un dottore, di medicine, di riposo. Il suo corpo era scosso dalla tosse e dai tremiti, e sembrò trovare un po’ di giovamento bevendo il latte della nostra capra che io e mia mamma gli demmo. Fu deciso di trasportarlo appena fosse stato possibile, cioè appena fosse scesa la notte, verso la pianura, a Borello, da una famiglia di fiducia che lo avrebbe portato poi in ospedale, affidandolo a mani sicure, esperte e generose. Ce ne erano tante di famiglie generose allora, e per questo la Resistenza è stata possibile, proprio grazie a questa rete di solidarietà umana. Lo avvolgemmo in coperte di lana e lo mettemmo dentro la cesta del fieno, trainata dai buoi, ben ricoperto di fascine. Il cammino era lungo e anche la notte era lunga, buia ma pure amica. Insieme con me c’era mia cognata Gianna. “Olghina ti devo la vita” mi disse quando ci rivedemmo a guerra finita. Aveva già la pipa tra le mani, il suo segno distintivo. Era Luciano Lama”1.

 Luciano Lama è salvato da Olghina e salverà a sua volta, con coraggio e sangue freddo, un suo compagno. Così sul numero speciale dedicato al Primo maggio 1952 di Lavoro, giornale rotocalco della Cgil dal 1948 al 1962, il futuro segretario generale della Cgil ricorda:

Non riuscirò a dimenticare gli ultimi giorni di aprile del 1944. La nostra brigata, la Ottava Garibaldi, era sottoposta da tre settimane ad attacchi in forze delle S.S., della Wehrmacht, delle 'brigate nere'. In quelle vallate dell’alto Appennino Tosco-Emiliano, poche centinaia di partigiani si battevano contro decine di migliaia di uomini forniti di mortai, di mitragliere pesanti, di aerei persino. La nostra formazione, per meglio sottrarsi al nemico, si era divisa. Io rimasi con una compagnia: una ventina di uomini ormai affranti per la fatica e affamati, con poche cartucce per i lunghi «91», due cavalli ed un mulo. Eravamo rifugiati in casa di un povero contadino, a oltre mille metri di altezza. Dick, il comandante di una squadra distrutta dai tedeschi al secondo assalto, ci aveva seguito, ferito a una gamba, su un cavallo, legato vicino alla mitragliatrice il cui treppiede era rimasto incastrato nel fango nell’ultimo attacco nemico. In casa, un unico letto a due piazze. Antonio, il contadino, ci aiutò ad adagiarvi il ferito. Dick si lamentava: nel polpaccio gli era rimasta infitta la pallottola di una machine-pistole e la gamba era gonfia, rossa. Occorreva riprendere il cammino al più presto perché i tedeschi, ancora nelle vicinanze, avrebbero potuto attaccarci da un momento all’altro. Decidemmo di tentare l’estrazione della pallottola e a me fu assegnato il compito dell’'operazione'. Tutte le mie cognizioni chirurgiche si riassumevano nell’aver visto una volta un mio cugino, studente di medicina, sezionare una gamba in sala di anatomia. Ma non c’era tempo da perdere e mi misi al lavoro. Bagnai nell’aceto una lametta da barba cominciai a tagliare il polpaccio. Non un muscolo del viso di Dick si muoveva. I compagni, uno dopo l’altro, si avvicinarono muti e silenziosi. Ad un certo punto, mentre affondavo sempre più la lama, Dick, imperlato di sudore, disse fra i denti: 'Sapete, ragazzi, che giorno è domani? È il Primo Maggio! Dì tu, Aldo, che sei stato all’estero e sai la storia, qualche cosa su questa data'. Aldo, il commissario politico di compagnia, che in quel momento mi stava passando le forbici mi guardò in modo strano, fra la meraviglia e la commozione. E cominciò a raccontare, con voce piana e gioviale, dell’eroismo dei martiri di Chicago, delle lotte dei lavoratori, del significato che il Primo Maggio ha assunto, nel mondo, per l’intera umanità, da quando i lavoratori, resi consapevoli, hanno acquisito la forza ed il coraggio di spezzare le catene della schiavitù capitalistica. Io intanto affondavo le forbici nella carne di Dick e a un tratto incontrai con la punta un corpo duro: la pallottola. Occorse ancora qualche minuto per estrarla, ma alla fine ci riuscii. D’un tratto saltò fuori, spinta dalle forbici, con un fiotto di sangue nero rappreso. L’'operazione' era finita. Aldo intanto continuava il suo racconto. La sua voce però prese colore, si fece appassionata e calda, quando vide che il tentativo era riuscito. Ricordò la sua lotta nell’emigrazione e nella clandestinità, í duri giorni del carcere, il Primo Maggio festeggiato in segreto tra le mura della cella, celebrato dal compagno più qualificato in ogni angolo delle prigioni dov’erano tenuti i 'politici'. Avevo dimenticato i rischi ed i disagi della caccia all’uomo, di cui eravamo ancora protagonisti, l’operazione che m’aveva scosso i nervi e lo stomaco, l’impassibilità eroica di Dick, la fame che si faceva sempre più acuta. D’un tratto, proprio Dick ruppe il silenzio che avevano lasciato le parole di Aldo. 'Senti, io non ho nulla da darti per dimostrarti il mio affetto. Ti regalo la pallottola che hai levato dalla mia gamba perché tu ti ricordi di me, di noi, di questo giorno, se riusciremo a salvarci'. Povero Dick! Morì in una azione successiva mentre sparava con la mitragliatrice fissata alla roccia, senza treppiede. Ma conservo ancora quel pezzetto di piombo come il pegno più caro di una lotta che ha fatto di me ragazzo un uomo, uno dei tanti che proseguono il cammino verso la liberazione”.

 Arrivato al vertice della Confederazione poche settimane dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Lama vive con la massima fermezza possibile - dalla bomba di piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa - la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo, coniugando le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione politica.

 A lui l’Italia deve molto: ha saputo unire e tenere insieme nei momenti difficili, senza strafare nei momenti delle conquiste, senza arretrare nei momenti delle sconfitte. Anche nelle fasi più critiche degli attacchi alla democrazia, anche in quelle di arretramento e divisione sindacale.

 Il 16 marzo 1978 (giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti) la Fiat 130 che trasporta Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati viene intercettata tra via Fani e via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) vengono uccisi sul colpo, Moro è sequestrato. Dopo una prigionia di 55 giorni il corpo dello statista viene ritrovato il 9 maggio a Roma, in via Caetani, emblematicamente vicina sia a piazza del Gesù sia a via delle Botteghe Oscure, a due passi dalle sedi storiche - rispettivamente - della Dc e del Pci. Il 25 aprile di quell’anno, nei tragici giorni del rapimento, Luciano Lama parla a Venezia.

In questo 25 Aprile 1978 la nostra Italia è sottoposta a una grande prova, la più tremenda, certamente, dalla Liberazione a oggi. Conquiste essenziali realizzate trentatré anni fa che parevano irreversibili, definitive, sono messe in discussione dall’aggressione armata che è in atto contro lo Stato e la società civile. giusto, in questo anniversario, ritornare senza retorica alle ragioni della nostra lotta di allora per ricavare da questa riflessione i motivi di un rinnovato impegno giacché noi, partigiani, non siamo mai stati e non saremo mai un gruppo di reduci, di ex combattenti che si perdono nel ricordo di gesta passate, magari gloriose. Perché abbiamo combattuto contro i fascisti e i tedeschi? Perché abbiamo rischiato la vita, perduto, nelle montagne e nei crocevia delle nostre campagne, nelle piazze delle nostre città migliaia dei nostri compagni e fratelli, i migliori? Perché siamo insorti, con le armi, quando il nemico era tanto più forte di noi?
Noi abbiamo lottato allora per la giustizia e per la democrazia, per cambiare l’Italia, per renderla libera. Eravamo giovani allora, e, oltre il coraggio, molte delle nostre idee erano certamente confuse, non sempre la ragione riusciva a dominare l’illusione e l’utopia. Ma la nostra lotta era fondamentalmente guidata, illuminata dalla volontà di distruggere la tirannide che aveva governato il Paese sopprimendovi ogni libertà e lo aveva portato alla guerra e alla catastrofe. Io ho combattuto in Emilia, prima nell’ 8° Brigata Garibaldi e poi dalla sua formazione nella 29a Brigata Gap. Ebbene nelle discussioni che facevamo sulle montagne dell’Appenino nel terribile inverno ‘43 – 44 e poi, nelle buche scavate nei campi sotto il granturco durante l’estate del ‘44, la ragione della libertà, l’odio della dittatura, il diritto di esprimerci liberamente, di conquistare uno Stato diverso, permeava ogni nostro sentire, costituiva la molla potente per il nostro agire . E anche dopo, negli anni duri che seguirono la fondazione della Repubblica e l’avvento della nuova Costituzione, anche dopo, l’anelito di libertà e l’ansia di giustizia che avevano segnato indelebilmente la lotta di Liberazione, continuarono a rappresentare le ragioni più profonde e più vere del nostro impegno.
Abbiamo in quegli anni subito discriminazioni ingiuste, abbiamo contato ancora dei morti nelle campagne e nelle città, ma sempre abbiamo lottato col metodo della democrazia, abbiamo rifiutato la violenza e il terrore. Di quelle ragioni quante restano vive ancora oggi? Quanti, dei nostri obiettivi di allora, rimangono da realizzare? La libertà esiste, in Italia! La democrazia politica è stata mantenuta, non c’è in carcere oggi nessuno che abbia perduto la libertà per le sue idee, per il suo credo politico o religioso. Persistono invece ancora troppe ingiustizie, troppe diseguaglianze, squilibri iniqui come la disoccupazione di massa, il sottosviluppo del Mezzogiorno, la mancanza di ogni prospettiva di lavoro utile per le giovani generazioni. Anche se è vero che nella lotta di Liberazione molti di noi errando avevano coltivato l’utopia di un impossibile passaggio repentino a una società di uguali, è vero certamente che l’obiettivo di una civiltà più giusta nella quale siano cancellati privilegi e inumane disuguaglianze sociali resta ancora da raggiungere (…) La democrazia non è per noi soltanto un mezzo, essa è anche un fine, la condizione permanente per una convivenza civile e sociale più libera, per una partecipazione più piena degli uomini al Governo della cosa pubblica. Per questo noi che vogliamo costruire una società migliore vogliamo farlo partendo dalla realtà di oggi (…) I giovani devono conoscere questi valori, e sapere che la nostra generazione, pur con tutti i suoi limiti e i suoi errori, ha creduto in qualche cosa e continua a sacrificarsi se è necessario per questi valori. La nostra gioventù i nostri figli così incerti e senza prospettive anche per nostre manchevolezze, devono ricevere da noi in questo momento una lezione di vita devono trovare in noi un esempio che come nel ‘43 - ‘44 non è fatto di parole, ma di scelte anche dolorose, di sacrificio anche grande perché c’è qualcosa che vale di più di ciascuno di noi, conquiste faticate nella storia degli uomini conquiste che ci trascendono e che si chiamano democrazia, libertà, uguaglianza. (…) Attorno a questa lotta noi chiamiamo i lavoratori, le donne, le giovani generazioni. Nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nella società deve nascere e svilupparsi un nuovo grande impegno per difendere la libertà e la democrazia, per cambiare l’Italia affermando quella esigenza di giustizia che animò la nostra lotta di Liberazione. C’è ancora un posto per noi, compagni partigiani, in questa dura battaglia di oggi. La violenza e il terrorismo di un pugno di nemici non prevarrà su 56 milioni di uomini schierati a difesa della loro libertà.

Ieri, oggi, sempre.



1 https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/profili-partigiani/quando-olghina-salvo-il-partigiano-luciano-lama/