Figlio di un capostazione delle ferrovie, Luciano Lama nasceva a Gambettola cento anni fa, il 14 ottobre 1921. Giovane partigiano protagonista della stagione fondativa della democrazia italiana, dirigente sindacale e uomo di sinistra, la sua segreteria è la più lunga nella storia ultracentenaria della Cgil.

Arrivato al vertice della Confederazione poche settimane dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Lama vive con la massima fermezza possibile - dalla bomba di piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa - la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo, coniugando le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione politica.

La parabola del “gigante buono” (la definizione è di Aris Accornero; “Il più bello dei marxisti famosi”, lo promuoverà Epoca; “Un uomo che parlava al paese” nelle parole di Giorgio Napolitano il giorno seguente alla sua morte) alla guida del più grande sindacato italiano è racchiusa tra due estremi opposti: diventa segretario generale della Confederazione nel 1970, a poche settimane dall’autunno caldo, cioè dal punto più alto raggiunto dal sindacato in termini di potere nella sua storia, mentre al momento della sua uscita, avvenuta nel 1986, sei anni dopo la terribile sconfitta alla Fiat di Torino con la “marcia dei quarantamila”, dopo la rottura della Federazione unitaria nel 1984 e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile dell’anno successivo, il sindacato - soprattutto la Cgil - tocca uno dei punti più bassi, di maggiore debolezza nel suo percorso.

A lui l’Italia deve molto: ha saputo unire e tenere insieme nei momenti difficili, senza strafare nei momenti delle conquiste, senza arretrare nei momenti delle sconfitte. Anche nelle fasi più critiche degli attacchi alla democrazia, anche in quelle di arretramento e divisione sindacale.

Il 16 marzo 1978 (giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti) la Fiat 130 che trasporta Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei deputati viene intercettata tra via Fani e via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) vengono uccisi sul colpo, Moro è sequestrato. Dopo una prigionia di 55 giorni il corpo dello statista viene ritrovato il 9 maggio a Roma, in via Caetani, emblematicamente vicina sia a piazza del Gesù sia a via delle Botteghe Oscure, a due passi dalle sedi storiche - rispettivamente - della Dc e del Pci. La Cgil vive con commossa partecipazione l’intera vicenda, proclamando lo stesso 16 marzo - insieme a Cisl e Uil - lo sciopero generale. Grandi manifestazioni hanno luogo a Bologna, Milano, Napoli, Firenze, Perugia e Roma, dove 200 mila persone si raccolgono in piazza San Giovanni.

“Io credo, compagne e compagni, che nelle grandi prove, nei momenti decisivi come questo si misurano in effetti le qualità vere, migliori di una classe, di una popolazione, di una nazione”, dice Luciano Lama dal palco. “Sul mondo del lavoro unito - prosegue il segretario generale della Cgil - incombe un compito importante nella difesa dei valori essenziali della libertà, della democrazia, della civiltà nostra; (…) dobbiamo sentire che l’intesa, l’unità fra di noi è una delle garanzie vere, delle possibilità della democrazia, della libertà di trovare nel nostro popolo la sua difesa essenziale. Dimostriamo in questo momento difficile, in questo momento tragico della vita del paese di essere all’altezza di questo grave compito”.

L’epilogo della vicenda è tristemente noto. Nel comunicato n. 9 le Brigate rosse scrivono: “Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.

Il discorso pronunciato in piazza San Giovanni, a Roma, il 16 marzo 1978

Così, sempre dal palco di piazza San Giovanni a Roma, dirà il 10 maggio Luciano Lama: “Anche oggi, come il 16 marzo, Roma è qui in questa piazza per esprimere alla famiglia Moro e alla Democrazia cristiana la solidarietà dei lavoratori e per ribadire con fermezza incrollabile la volontà del nostro popolo di difendere lo Stato democratico, le nostre libertà (…) La lotta contro il terrorismo non finisce oggi - concludeva il suo discorso il leader della Cgil - ma (…) se il paese rinserrerà le sue file, se il destino d’Italia sarà preso nelle proprie mani da ogni lavoratore, l’esito finale di questa dura prova è sicuro: le Brigate Rosse potranno ancora distruggere e uccidere, la loro barbarie inumana potrà farci ancora soffrire, ma essi non prevarranno”. Non prevarranno. Non hanno prevalso. E come allora, anche oggi non prevarrà la paura, la solitudine, la disunione. Non prevarrà la crisi. Non prevarrà il virus.

Diceva qualche anno fa il presidente della Repubblica Sandro Pertini nel suo messaggio di fine anno agli italiani del 31 dicembre 1979: “Talvolta noi ci disistimiamo. Io ho quindi ragione di credere nel popolo italiano, un popolo che ha saputo superare situazioni ben più difficili di questa. E saprà superare anche questa situazione. Ed allora è al popolo italiano che io mi rivolgo in questo momento. E mi rivolgo esprimendo la mia ammirazione, la mia riconoscenza e l’augurio più fervido. Vedrete che ce la faremo, amici miei, a uscire da questa situazione. Ce la faremo, state certi”. Ce la faremo, ne siamo certi, ma dobbiamo e dovremo abbandonare - in tutti i campi - comportamenti irresponsabili e pericolosi, dobbiamo e dovremo ricominciare a lottare insieme, rimanendo uniti. I nostri nonni hanno combattuto i nazisti e i fascisti durante la Resistenza, i nostri genitori hanno difeso la democrazia durante gli anni di piombo, a noi si chiede in fondo molto meno.