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Sfoglio un vecchio album fotografico riposto nella dispensa tra calici e bicchieri di vetro: gli angoli smussati, l’odore della carta ingiallita, le immagini in bianco e nero, i suoni e le sensazioni di un’altra epoca si materializzano di fronte ai miei occhi. I palazzi ottocenteschi in stile neoclassico che signoreggiano tra i parchi cittadini, le grandi cupole a bulbo e padiglione che sormontano chiese e torri, gli spaziosi viali affiancati da file ordinate di gelsi, le linee dei tram, le autovetture, le carrozze, la stazione ferroviaria, i passanti con tuba ed eleganti bastoni da passeggio, voluttuose signore con crinoline alla moda, i bimbi in divisa da scolaretti che corrono allegramente; poi, la periferia, le prime piccole fabbriche familiari, le fattorie, la felicità dei contadini per il raccolto, i frutti della terra sulla tavola imbandita a festa, e i boccali grondanti di Negru de Purcari, il leggendario vino moldavo. Chiudo il volume di colpo, osservo la copertina rigida, deteriorata dal cattivo uso e dal tempo, la brancico lievemente, poi sospiro: “Chisinau: 1834-1917”. Di tutto ciò è rimasto solo lo spettro.
Il peso della storia
Chisinau è la capitale della Repubblica di Moldavia, nata dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e proclamatasi indipendente e autonoma il 27 agosto 1991. Parte del Principato di Moldavia che nel XVI secolo cadde sotto il protettorato ottomano, la città aveva ancora all’inizio dell’Ottocento le sembianze di un piccolo borgo quando, ceduta alla Russia degli Zar, divenne capitale della Bessarabia. In seguito al collasso dell’Impero russo, Chisinau e il territorio della Bessarabia furono annessi alla Romania, dopodiché gli eventi del conflitto mondiale e un destino infame la travolsero inesorabilmente: il patto Molotov-Ribbentrop legittimò l’invasione dell’Armata Rossa nell’estate del 1940 e il 10 novembre dello stesso anno un tremendo sisma devastò la città da cima a fondo. Poi ancora guerra, bombardamenti, raid aerei, e l’occupazione dell’esercito nazifascista rumeno: 10 mila ebrei uccisi sul posto, 80 mila internati nel campo di concentramento; 500 mila rom trovarono la medesima sorte. Progrom e Porajmos, due termini per indicare la medesima vergogna: sterminio etnico. Alla fine della guerra, il 70% della città, di nuovo sotto il giogo sovietico, si presentava come un ammasso di macerie e rovine.
All’aeroporto internazionale incontro Chris, un giovane medico volontario americano che presta servizio in città. Ad attenderlo alcuni amici, i quali, cortesemente, mi accompagnano fino alla prima periferia. Viaggiamo su una monovolume Toyota Rav4; il proprietario è padre Evghenii, un pastore battista. È mio coetaneo e ha da poco riallacciato, tramite internet, i contatti con il fratello, fuggito all’età di 13 anni durante l’occupazione sovietica e ora residente in Italia. La strada principale è intasatissima: vecchi camion a rimorchio ZIL, autovetture ZAZ e Lada, piccole utilitarie Seaz, macchine militari, bus Pavlovo, ma anche Subaru, Peugeot, Mercedes, Volkswagen, Toyota, si sovrappongono in un caotico procedere a furia di clacson, accelerate e frenate improvvise. Chisinau è un grosso agglomerato urbano, raso al suolo e ricostruito massicciamente e frettolosamente nel secondo dopoguerra con una concezione urbanistica attenta solo all’ottimizzazione delle spese e della funzionalità degli spazi. Arriviamo al quartiere di Botanica: “Qui siamo a McDonald Botanica”, mi spiega padre Evghenii, indicando l’edificio di fronte. Il contestato emblema della deriva della globalizzazione è il punto di riferimento per la gioventù moldava. L’abitazione 10/53, dove sono stato indirizzato, non è un albergo, ma un semplice alloggio familiare che per pochi soldi dà ospitalità ai viaggiatori. È chiuso, e nessuno risponde, quindi decido di cercare un’altra soluzione. Mentre scendo le scale tra cumuli di mozziconi e immondizia abbandonata, incrocio un uomo sulla cinquantina: mi urla qualche cosa, non capisco, poi spalanca la bocca e noto la dentiera in acciaio che riflette il raggio di luce filtrato dalla finestra alle mie spalle. Sì, proprio acciaio, che in Italia si usa solo per l’odontoiatria veterinaria!
Tutti i danni dell’Urss
L’occupazione sovietica non ha significato solo ricostruzione edilizia, anzi. Prima di tutto è stata una colonizzazione etnica e culturale: l’inserimento nel tessuto demografico di una consistente comunità di etnia slava, l’imposizione linguistica di caratteri cirillici in sostituzione di quelli latini, per sottolinearne le differenze con il romeno, ed enfatizzare l'influsso letterario e linguistico russo, l’esclusione della popolazione locale da ruoli e posizioni cardine nel tessuto sociale, avevano come obiettivo il disconoscimento dell’identità autoctona. Ma non solo: la sconsiderata industrializzazione, che non ha tenuto conto dei possibili danni biologici e chimici all’ambiente circostante, la produzione agricola portata ai limiti estremi dello sfruttamento, attraverso l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti artificiali altrove assolutamente vietati, ha inaridito e reso povera una terra storicamente fertile e prosperosa.
Samuel, viso tondo, capello rasato, costume e ciabatte da mare, è l’autista del taxi che mi accompagna alla ricerca di un albergo. Ha vissuto per due anni a Washington, prima di tornare a Chisinau, quindi parla inglese, anche se in maniera molto approssimativa: “America good, but Moldova my country” ripete ridendo, “your country Italy, my country Moldova!” Samuel parla russo, non moldavo. La lingua con i caratteri latini è stata ripristinata solo con l’indipendenza, e quindi praticamente sconosciuta dalla generazione over trentacinque. La disoccupazione è alta e soprattutto poche sono le possibilità per gli operai specializzati: “Io lavorare tubi idraulici. Guadagnare molti soldi in Stati Uniti. Ma qua no lavoro. Se qui lavoro, io unico, io migliore”, esclama sorridendo. Lui, la dentiera, o qualche cosa che assomigli vagamente a una protesi odontoiatrica, proprio non ce l’ha, però estrae dalla tasca il nuovo IPhone 8Gb e lo mostra orgoglioso. Il possesso, la proprietà è una sensazione che è stata soffocata a lungo e ora emerge, preponderante ed eccessiva, come status symbol di rivalsa sociale.
Trovo sistemazione in una casa privata, molto piccola ma accogliente, che la coppia di anziani proprietari ha trasformato in Ostello della Gioventù: compresi i residenti siamo in dieci, nello spazio di 30 metri quadrati. Il centro si trova a due passi: il parco di Stefan Cel Mare, la Cattedrale Ortodossa, l’Arco, il Parlamento, il Teatro dell’Opera, il monumento a Puškin, i Casinò, gli sgabuzzini per il cambio di valuta, negozi di orologi, banchi dei pegni, e poi Benetton, Adidas, Gucci, e, ovviamente, McDonald. Sul marciapiede, in direzione Bazar centrale, incontro una signora, poi un’altra, poi un’altra ancora che, sedute su una cassetta di legno, di fronte a loro un cartello che reca la scritta “prover'te voi ves”, “provate il vostro peso”, combattono la povertà, orgogliose, sfruttando la vanità consumistica delle nuove generazioni. Una signorina si ferma, sale sulla bilancia, poi allunga una banconota all’anziana signora e, soddisfatta del peso forma, prosegue per il suo cammino.
Il paese più povero d’Europa
La Moldavia è il paese più povero d'Europa: il più basso prodotto interno lordo, il minor indice di sviluppo umano. L’annessione della Romania alla UE ha di fatto significato isolamento internazionale: da una parte, il confine con la Comunità Europea, che revoca il precedente accordo tra Moldavia e Romania volto alla mutua collaborazione economica, dall’altra, sul versante ucraino, la Transnistria, la regione ribelle che anela a una ricongiunzione con la grande madre Russia. La Moldavia e i suoi abitanti riescono a ritagliarsi uno spazio sulle pagine dei quotidiani internazionali solo per pochi e vergognosi motivi: criminalità, prostituzione e immigrazione clandestina. Storie terribili: ragazze avvicinate da personaggi che propongono un lavoro sicuro all’estero, e, poi, con meschini ricatti, costrette alla mercificazione del proprio corpo; bambini “venduti per essere usati nell’industria del sesso oppure come pezzi di ricambio nel mondo dei trapianti”. A muovere i fili quasi sempre qualche losco figuro straniero. Sul territorio operano diverse associazioni, per la gran parte finanziate da enti privati americani: si occupano di assistenza medica, educazione e contribuiscono alla lotta contro lo sfruttamento dei flussi migratori, fornendo supporto alle vittime e alle famiglie. La Moldavia ha più volte cominciato un lungo e tortuoso processo d’adeguamento ai parametri necessari per l’annessione alla Comunità Europea, ma le difficoltà economiche e sociali costituiscono un ostacolo che pare insormontabile. La gente non si nasconde: freme per poter entrare a far parte dell’Europa. Bruxelles, formalmente, spinge per un’integrazione, ma, se non per poche organizzazioni Onlus, è praticamente assente sul territorio.
Prostituzione e casinò, “It’s the economy, stupid!”
“Fratello, it’s a pity, it’s a pity! It’s a shame!”, “È un peccato, è un peccato! È una vergogna!”, esclama Nourdine, l’amico francese che incontro nell’improvvisato ostello dove alloggio. Nourdine è, come lo definisco io scherzosamente, un “predatore da disco”: adora ballare e possibilmente intrattenersi con qualche signorina, ma è assolutamente contrario alla prostituzione. I suoi genitori sono originari del Marocco e sa bene che cosa vuol dire povertà e immigrazione. Si lamenta che per abbordare una ragazza a Chisinau bisogna aprire il portafogli. Le moldave sono bellissime e vestono alla moda: succinte minigonne pieghettate, laccetti e fiocchi in satin, jeans elasticizzati leggermente sfasati alla caviglia, camice a maniche corte di raso, maglie lunghe con cintura in vita, blazer con collo a revers, gonne, tailleur, sandali, stivali, ballerine, infradito e scarpine a punta. Nourdine viene avvicinato da tre signori. Uno di loro parla italiano, con accento marcatamente milanese: “Ho un appartamento per tutta la notte, con quattro ragazze al tuo servizio”. Trasale la vergogna quando capisco che da queste parti italiano, francese o europeo è sinonimo di “puttaniere”.
Nel solo centro conto almeno una ventina di Casinò: “Per pulire denaro il gioco d’azzardo è la via migliore” spiega un amico che frequenta questo genere di locali, “è sufficiente conoscere qualcuno che deve riciclare, non avere grandi scrupoli di ordine morale, essere disposti a pigliarsi un colpo di pistola alla minima cazzata...” Di sera la città è poco illuminata, e anche poco frequentata: al di là dei Casinò, qualche locale, un paio di ristoranti, ma non c’è molto altro da fare.
Il giorno dopo mi reco a Buiucani McDonald, poi torno indietro a piedi: giro per edifici diroccati, parchi giochi abbandonati, enormi centri sanitari in disuso, palazzi in stile Art Nouveau, le cui geometrie stravaganti sottomesse all’incuria e al cattivo uso appaiono deformate e laconiche. Fotografo tutto con impertinenza: vie e viottoli, autovetture malandate, tre ragazzi che litigano per un vecchio motorino, i volti degli anziani, i gruppi di bambini che, incuriositi, sospendono i propri giochi per osservare quest’insolito straniero, le donne che parlottano sedute ai bordi della strada. Mi avevano detto che Chisinau era pericolosa, ma trovo che lo sia molto meno di certe città occidentali. Forse perché lo spiegamento di forze di polizia è ingente: ragazzini che indossano tute nere, manganelli penzolanti dalla cinta e baschi in testa, guardie civili con enormi cappelli sotto i quali a malapena s’intravede il volto da fanciulli. Alcuni, più anziani, che fanno sosta fissa seduti all’ombra di vecchi olmi. Una vecchia Lada VAZ 210 - clone della storica 124, prodotta sul suolo sovietico da stabilimenti affiliati Fiat - con l’inequivocabile scritta “Politia”, ci affianca: gli ufficiali all’interno lanciano uno sguardo, poi proseguono. “Questi li seminiamo anche a piedi” esclama Nourdine, ironizzando sull’obsoleta dotazione delle forze dell’ordine locali.
Eccoci qua, disposti a cerchio, seduti a un tavolo, all’ombra di un vecchio ombrellone presso un chioschetto in Renaşterii Boulevard: io, Italia, Nourdine, Francia, Adam, Gran Bretagna, Heidi e il fidanzato Thomas, Germania, Jeff, Irlanda e infine Alex, Estonia. Un’improvvisata Commissione Europea: parliamo, discutiamo, giudichiamo. Quali sono le possibilità per la Moldavia di raggiungere gli standard minimi per l’ingresso nell’Unione Europea? Non c’è ombra di dubbio che i problemi economici siano tanti, quelli sociali abnormi, quelli politici spropositati. La cameriera si avvicina una volta e ci chiede se desideriamo qualche cosa d’altro. Poi ancora una volta. Un’altra volta ancora! Allora sbuffo e mi lascio andare a un gesto di insofferenza. Alex, l’estone, mi guarda e sentenzia: “Stava solo cercando di essere gentile. Parlate tanto voi di Moldavia, ma come vi permettete di giudicare se non avete nemmeno la pazienza per ascoltare?” Come si può rimanere indifferenti di fronte all’ingenuo sorriso di chi desidera solo sottrarsi alla miseria? Prendo e porto a casa.