È in grado il solo mercato di far ripartire l’economia? L’interrogativo si impone, per ovvie ragioni. La storia insegna che in alcune fasi l’intervento pubblico è risultato decisivo per superare grandi crisi di sistema del capitalismo, crisi in cui le forze del mercato e dell’accumulazione capitalistica (e della speculazione finanziaria, che si lega alla disuguaglianza), lasciate a se stesse, avevano trascinato le economie avanzate: il New Deal di Roosevelt è forse l’esempio più importante. Ma altrettanto significativo è il fatto che anche dopo la seconda guerra mondiale la crescita dell’"età dell’oro", specialmente in Europa occidentale (Italia compresa) ma pure in Estremo Oriente, fosse legata a doppio filo con l’intervento dello Stato. Né andrebbe dimenticato, venendo ai nostri giorni, che negli ultimi anni in tutto il mondo avanzato il costo del denaro è rimasto su livelli eccezionalmente bassi, come forse mai nella storia dell’economia mondiale; ma nonostante la grande liquidità, anche i tassi di crescita dei paesi avanzati sono rimasti bassi, con molta ricchezza accumulata che non ha saputo o non ha voluto trovare la via degli investimenti produttivi. Questo perché è mancato un ruolo del pubblico capace di promuovere la crescita con investimenti diretti, oppure di orientare, con politiche espansive, le imprese verso nuove aree in cui investire, dal Green New Deal alla biogenetica, alla robotica.

Nell’era del coronavirus questi temi si ripropongono in forma ancora più netta. Di fronte al crollo simultaneo di domanda e produzione, senza precedenti, l’iniezione di liquidità è massiccia. Ma appunto, il problema è che non c’è solo il crollo della domanda: c’è quello della produzione. E le imprese private, che già faticavano prima, molto difficilmente riusciranno da sole a riaccendere tutti i motori dell’economia (ancor meno a farli girare meglio che in passato, come sarebbe necessario). Questo poi è ancor più vero per il caso italiano. Noi infatti eravamo, già prima del coronavirus, imbrigliati nelle spire di un declino ventennale, che aveva fatto del Belpaese il grande malato d’Occidente – diciamolo pure; al di là di tanta retorica e di qualche nota positiva (benvenuta) sul Made in Italy o sulla seconda manifattura d’Europa. E non solo. Noi siamo anche il paese in cui lo Stato si mostra meno in grado di spendere la liquidità di cui dispone, di "mettere i soldi a terra", come si dice. E di liquidità ne sta arrivando tanta, come accennato: sia a livello nazionale (i due decreti di 25 e 55 miliardi fanno insieme la più grande manovra finanziaria della storia d’Italia, perdipiù interamente espansiva), sia probabilmente (e auspicabilmente) dall’Europa: 20 miliardi dal Sure, 40 dalla Bei per i finanziamenti alle imprese, circa 37 dal Mes per la sanità (se decideremo di chiederli) e, secondo la proposta della Commissione sul "Recovery Plan", altri 172 miliardi, di cui 81 a fondo perduto. Ma sapremo spendere tutte queste risorse?

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Per trovare una risposta, Daniele Archibugi, Laura Pennacchi ed Edoardo Reviglio hanno elaborato una "proposta radicale" che però, a ben vedere, è soprattutto di buon senso, se solo si decidesse di accantonare la vulgata liberista che tanto ha influenzato la politica e la società in questi anni. L’idea è semplice per molti aspetti. Primo, occorre identificare delle missioni per interventi economici e sociali "con forti effetti moltiplicativi": si pensi alla riqualificazione del territorio e alla rigenerazione urbana, ambiti dove "debbono operare congiuntamente urbanisti, architetti, archeologi, biologi, operatori sociali, geologi"; ma anche al potenziamento della scuola e dell’università (sia sul piano delle strutture che su quello del "capitale umano"), agli interventi per le aree interne e per il Mezzogiorno (a cominciare dalle infrastrutture di traporto e comunicazione), a quelli per la green economy e la riconversione ecologica (qui vale la pena accennare, anche solo per rendere l’idea, a un piano pubblico per realizzare le ricariche elettriche, indispensabili per le nuove auto ecologiche progettate ad esempio dalla Fiat). Secondo, per passare ai fatti occorre creare "una sede istituzionale centrale", con il concorso di più ministeri (Economia, Mezzogiorno, Sviluppo, Istruzione, Università, Innovazione), "che bandisca e promuova in tutto il paese con procedure accelerate una eccezionale stagione di progettazione e di accumulazione di progetti".

Questo secondo aspetto è particolarmente delicato. È fondamentale che questa istituzione centrale, che potrebbe essere un’Agenzia come proposto dalla Cgil (non una struttura rigida, quindi), non si riveli un corpo separato dall’amministrazione ordinaria – come pure avvenuto in altre fasi della nostra storia – finendo per indebolirla ulteriormente. Ma l’Agenzia dovrà essere parte di una riforma organica di tutta la nostra amministrazione: una riforma che contemplerà nei prossimi due anni l’assunzione di 500-700 mila nuove leve (l’età media sarà poco più di trent’anni), da scegliere non solo in base alle competenze specifiche ma anche a quelle organizzative e gestionali; e che veda una generale semplificazione e accelerazione delle procedure (con riduzione dei livelli decisionali, razionalizzazione delle sanzioni per i dipendenti e della normativa sulla privacy, spostamento dei controlli a valle del processo anziché a monte, superamento delle gare al massimo ribasso). È una riforma su cui il governo si è già messo al lavoro.

Come finanziare i nuovi investimenti? Una soluzione potrebbe essere il Recovery Plan che l’Unione europea sta mettendo a punto: e l’Agenzia, costituita grazie al concorso di più ministeri, dovrà proprio servire a gestire le nuove risorse in accordo con l’Europa. I decreti Cura Italia e Rilancio sono stati dedicati a tamponare l’emergenza, come era giusto e necessario per le imprese e i lavoratori, e ad avviare una prima serie di misure strategiche, dal rafforzamento patrimoniale delle aziende medie e grandi agli investimenti nella sanità, nell’istruzione, nella riconversione ambientale. La seconda fase che accompagnerà la ripresa, e che comincerà a vedere come accennato (auspicabile) fondi europei molto consistenti, dovrà avere al centro il rilancio degli investimenti, con tutte le leve disponibili, per favorire la ripresa (e vale la pena ricordare che i fondi del Recovery Plan – per le infrastrutture, per la riconversione ambientale e digitale – si aggiungeranno ai 220 miliardi per opere già previste e ancora bloccate, che andranno spesi nei prossimi 15 anni).

Occorre però tenere presente che, accanto alla gamba pubblica, con altrettanta attenzione bisogna pensare a quella privata: incentivando le imprese a investire e a innovare, sul modello di quanto fatto con industria 4.0, come pure incoraggiando le fusioni e il reshoring, e ponendo particolare cura alla crescita delle start up (il Pd sta elaborando su questo un "Piano per una nuova politica industriale", in parte anticipato da Federico Fubini sul Corriere della Sera del 3 maggio). Oltre a ciò l’area della ricerca va potenziata, e in settori di frontiera, dalla biotecnologie e sanità alla robotica, alla riconversione ambientale: con formule miste pubblico-privato, sul modello di quanto si fa in Germania con la Fraunhofer-Gesellschaft per lo sviluppo della ricerca applicata; con più fondi, colmando così un ritardo antico dell’Italia (di nuovo, utilizzando le opportunità che ci offre l’Europa); e con un nuovo motore pubblico, specie sul versante della riconversione ambientale, mettendo a sistema le nostre partecipate.

Stiamo entrando in una fase dell’economia italiana (e mondiale) che potrà essere molto diversa dal passato. Nel mezzo di una crisi senza precedenti, abbiamo ora consistenti risorse, per far ripartire l’economia. Dobbiamo utilizzarle per avviare una stagione virtuosa e nuova di collaborazione fra pubblico e privato. Una stagione volta a superare i mali storici del nostro Paese, che sono all’origine del declino (burocratizzazione e inefficienza del pubblico, sottocapitalizzazione delle imprese, scarsi investimenti nell’istruzione e in ricerca e sviluppo, disuguaglianze territoriali e sociali). E per questa via, una stagione che sia capace anche di promuovere una nuova stagione di sviluppo, più attenta al benessere e alla qualità della vita.

Emanuele Felice è professore ordinario di Politica economica presso l'Università "Gabriele D'Annunzio" di Chieti-Pescara