La libertà dallo sfruttamento è un diritto umano? È una delle domande che hanno fatto da cornice all’iniziativa promossa dalla Flai Cgil in occasione della giornata mondiale per i diritti dei migranti. Domanda diretta e risposta tutt’altro che semplice perché se è ovvio che la tratta di esseri umani, la riduzione in schiavitù e il lavoro forzato sono proibiti dal diritto internazionale, molte altre forme di sfruttamento, magari meno estreme ma altrettanto virulente, non lo sono e così, come ha spiegato Jean René Bilongo, responsabile dell’Osservatorio Placido Rizzotto, accade che molti migranti soffrano “il martirio” di un lavoro sfruttato, anzi sempre di più “viviamo in un contesto che ripropone sotto mentite spoglie i meccanismi della schiavitù”. A illustrare i dati ci ha pensato nei mesi scorsi il quinto Rapporto agromafie e caporalato pubblicato dall’Osservatorio e dalla Flai, secondo il quale circa 180mila persone vivono in una condizione di grave sofferenza occupazionale. In queste fasce di vulnerabilità ci sono alcune poi figure particolarmente esposte come le donne e i richiedenti asilo.

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Storie di ordinario caporalato

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Nonostante il dato sia imponente le denunce spontanee da parte delle vittime sono sempre poche. Lo hanno confermato i tanti esperti che nel loro lavoro quotidiano sul campo provano a tutelarle. A fare difetto è soprattutto la presa in carico sociale, uno dei limiti da superare a stretto giro.

Per Maria Grazia Giammarinaro, magistrato e in passato relatrice Onu per la tratta di esseri umani, infatti: “o si mettono in campo innovazioni, energie ed esperienze che facciano tesoro dei punti di forza di un sistema antitratta eccezionale come quello italiano o rischiamo di non essere in grado di affrontare nuove sfide, rese oggi ancora più gravi dal covid e dalla mancanza di risposte mirate alle fasce più vulnerabili, praticamente abbandonate a loro stesse”.

Dalla Piana di Sibari arriva la testimonianza di Fabio Saliceti, di Progetto Sud, e del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. Da diversi anni una persona viveva assieme a un altro centinaio di migranti in un palazzo della zona il cui proprietario oltre a raccogliere l’affitto, faceva da tramite con i caporali. Scattato il lockdown, in assenza di regolare contratto, i braccianti non avevano permesso di circolare e rimanevano senza lavoro e senza possibilità di pagare il posto letto. Il proprietario staccava così l’elettricità. Ne è nata una denuncia. Peccato che da marzo a oggi quel lavoratore che ha avuto il coraggio di denunciare non abbia ancora ottenuto il permesso di soggiorno nonostante le forze dell’ordine abbiano poi arrestato il proprietario dello stabile e scoperto anche un latitante che vi si nascondeva.  

Ci sono i ritardi e c’è l’incapacità del sistema di comprendere che queste persone oltre a dover sopravvivere hanno il bisogno di sostenere le famiglie lontane. Come conferma anche Pasquale Costantino, del progetto Incipit: “Mandare i soldi a casa è  un’ossessione: per questo oltre alla paura di denunciare c’è il timore di perdere tempo e denaro che, per quanto poco, è preziosissimo”. Un’altra storia, un altro esempio di storture che vanno corrette: “Nell’ottobre 2019 un ragazzo perde tre dita della mano destra, raggiunge la nostra struttura assieme a un mediatore e decide di denunciare, ma il processo viene fissato per l’aprile 2021”.

Sono rarissimi i casi di vittime di sfruttamento che decidono spontaneamente di denunciare. Lo fanno a seguito di contrasti molti forti che a volte degenerano in violenze fisiche o una volta concluso il rapporto di lavoro. Anche perché spiega l’avvocato Emilio Santoro accade spesso che questi lavoratori finiscono per essere vittime anche della repressione penale, per esempio, quando con il sequestro dei beni dei loro sfruttatori finiscono senza un tetto. Così è accaduto lo scorso 2 dicembre a quattro lavoratori tessili bengalesi soccorsi solo grazie a una rete di assistenza. Per Santoro è quindi essenziale che le procure diventino uno snodo non solo della persecuzione del reato ma anche della protezione delle vittime. Nominare un amministratore cautelare che si faccia carico delle pendenze delle aziende sottoposte a sequestro dei beni strumentali, ad esempio, potrebbe essere risolutivo. Sempre che non accada come a Foggia dove – racconta Raffaele Falcone della Flai Cgil provinciale – l’amministratore c’era ma gli imprenditori continuavano nonostante la sua presenza a sfruttare i braccianti tanto che le forze dell’ordine sono dovute intervenire per una seconda volta.

 


Gianfranco Della Valle è il coordinatore del Numero Verde nazionale contro la Tratta. Ventuno progetti in tutto il territorio italiano, un’iniziativa nata inizialmente per contrastare lo sfruttamento sessuale che sempre più si occupa anche di quello lavorativo “negli ultimi 2 anni le richieste sono salite al 20% mentre prima erano il 4-5%. I nostri numeri sono comunque piccoli – aggiunge Della Valle – e non risolutivi ma abbiamo sempre funzionato rispondendo alle sfide. Quella dei prossimi anni riguarderà il mondo del lavoro”. In effetti – conferma Sabrina Scarone, del progetto N.A. Ve. – “è proprio la richiesta di lavoro regolare la prima che viene fatta da chi vuole affrancarsi dallo sfruttamento. Ma spesso noi non siamo in grado di rispondere. Questo è lo scoglio maggiore”.

Uno scoglio che necessità di risposte politiche come sottolinea Gervasio Ungolo, dell’Osservatorio migranti Basilicata. Una di queste risposte potrebbe essere il Piano triennale per il contrasto al caporalato: “la taskforce dovrebbe somministrare ingenti risorse in tre anni, cifre importanti ma il timore è che, come spesso accade, questi fondi finiranno per disperdersi su questioni marginali anziché essere indirizzate alla risoluzione del problema”.

In altre parole, la repressione non può bastare anche se come sottolinea Silvano Lanciano, segretario generale della Flai Cgil Pollino Sibaritide Tirreno: “ha avuto un forte valore simbolico nel dissuadere le aziende dal ricorso a forme di sfruttamento”. Per le vittime però serve anche molto altro: la prospettiva di un futuro dignitoso.

Si torna così al tema iniziale: la libertà dallo sfruttamento è un diritto. Il rischio che si corre nel non affrontare questa sfida porta i nomi che vengono ricordati da Rocco Borgese della Flai Cgil di Gioia Tauro: Becky Moses, Soumaila Sacko, Suruwa Jaithe, Sylla Noumo e tanti altri le cui vite sono andate perdute, in mare come in terra, perché è stata negata loro la possibilità di un’esistenza migliore.