Come spesso accade, gli episodi più piccoli contengono una rivelazione. Ciò che sembra un dettaglio, a volte insignificante, all’improvviso può fare luce su una situazione complessiva. Può anche essere un esame di maturità e una spilla indossata da un ragazzo. Questo è il punto di partenza, l’innesco per entrare in Una spiegazione per tutto, il film del regista ungherese Gàbor Reisz che arriva nelle sale italiane dal 1° maggio, dopo la presentazione all’ultimo Festival di Venezia. È stato una sorpresa, si è diffuso sin dalle prime proiezioni fino a vincere la sezione Orizzonti.

Nei giorni scorsi è arrivato anche il riconoscimento del sindacato dei critici, SNCCI, che lo ha eletto appunto film del critica: “Uno scandaglio nevralgico all’interno delle contraddizioni di un Paese, minato da grandi contrapposizioni e soffocato dai conservatori orbaniani – questa la motivazione -. Un film all’apparenza sul disagio esistenziale giovanile che sa trasformarsi con intelligenza in un’opera dal forte impatto politico”.

Nello specifico, il film è uno spaccato dell’Ungheria di Orbàn duro, frontale, senza sconti. La distribuzione Arthouse, ossia l’etichetta di I Wonder dedicata al cinema d’autore, lo porta in sala proprio nella Festa dei lavoratori, una data significativa, una giornata di libertà non solo per il lavoro ma per tutti, che lancia un messaggio contro l’involuzione dello Stato ungherese sempre più repressivo e spietato. Si pensi alla nostra Ilaria Salis, da quattordici mesi in galera con solo un’ora d’aria al giorno…

Il racconto è ambientato a Budapest oggi. Il giovane Abel sta preparando il suo esame di maturità, preso come in una morsa tra le aspettative della famiglia e l’amore non confessato per la sua amica Janka. Forse per le eccessive pressioni, l’esame va storto. Così, in modo lento e graduale, si scatena lo scontro tra suo padre, convinto conservatore, e il professore di storia che lo ha bocciato, un docente dalle idee progressiste.

Perché? Proprio durante l’orale, il ragazzo aveva indossato una spilla con i colori della bandiera ungherese, esponendo così un simbolo nazionalista e dunque ritenuto favorevole al regime. Questo, nella faziosa ricostruzione dei parenti, avrebbe innescato l’ostilità del professore, deciso a tutti i costi a bocciare l’alunno per motivi squisitamente politici. Non basta: i fatti vengono ripresi dai notiziari e nasce un caso mediatico, ecco allora che la contesa si inasprisce ulteriormente. E diventa un vero e proprio scandalo nazionale.

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Partendo da un fatto, un esame, Gàbor Reisz apre la questione a raggiera e la espande all’intera società ungherese, che risulta ferocemente divisa e segnata da ferite irrisolte. Se il sottofondo politico è evidente, così come il rischio dell’involuzione antidemocratica – di fatto già realtà -, il racconto sceglie però di non focalizzare sulla macropolitica ma resta sulla comunità dei cittadini raccontandone la lacerazione.

Così il regista: “L’esibizione delle spille da parte dai nazionalisti durante gli eventi e le manifestazioni di partito ha cambiato sensibilmente il significato di questo simbolo negli ultimi vent’anni. Un tempo rappresentava l’indipendenza ungherese e il legame con il Paese, oggi – invece – chi la indossa è considerato un sostenitore della nazione e chi non la indossa un oppositore”. Del resto è proprio ciò che fanno i regimi, spaccare la cittadinanza e bollare come “nemico” chi non la pensa come loro.

Uno scenario grave e incendiario, come spiega bene il cineasta, tanto che spesso addirittura i raduni famigliari sfociano in litigi e risse. Tutto questo viene inscenato nel film per interposta metafora, attraverso un racconto della giovinezza che lascia l’adolescente Abel tutto sommato incolpevole, solo vittima degli eventi e preda del mondo intorno. Così come lascia un Paese incartato su se stesso e avvolto nelle fiamme dell’odio incrociato, perché quando viene meno il patto sociale, la convivenza pacifica tra cittadini, allora l’abisso è dietro l’angolo. Ne sa qualcosa anche la nostra Ilaria.