Arrivo a Odessa da Kiev in aereo. Almeno emotivamente non è una grande idea, perché l'aereo ti sposta con velocità, troppa, soprattutto quando devi metabolizzare contrasti come quelli che ti lasciano addosso le capitali dell'ex Unione sovietica. Ma a questo servono i viaggi: ad esporci alle difficoltà emotive per darci l'opportunità di guadagnare spazi di consapevolezza. Quindi sistemo le pratiche che riguardano la stanza e poi via per la città.

Pochi ne sono a conoscenza: Odessa è la città dove un immigrato napoletano, cantando della nostalgia che provava per la sua terra, scrisse O' sole mio. Ed è anche la città della famosissima scalinata de La Corazzata Potemkin, celebre oltre che per la rilevanza storica, anche per la memorabile battuta del ragionier Ugo Fantozzi. E questa città somiglia proprio a Fantozzi, su tutto per la cura estetica con la quale viene confezionato il guscio che racchiude poi quella che ne è l'essenza più intima: la malinconia. Fantozzi aveva in sé una grandezza infinita, ovvero il saper raccontare la tristezza attraverso il sorriso. È un'opera leggera solo agli occhi di chi la guarda con colpevole superficialità, lo stesso vale per Odessa. È avvolta da una bellezza difficile da raccontare, ma la magnificenza dei palazzi e delle fontane non può comunque coprire quella naturale abitudine alla durezza, alla spigolosità, sulla quale sia la città che la nazione intera si reggono. Ha addosso i chiari segni emotivi di un secolo che ormai sembra lontanissimo.

Per scoprire che non è distante per nulla mi è bastato raggiungere la Casa dei Sindacati. Fa strano immaginarlo, anche perché quando cammino su terre che hanno vissuto violenze del genere sono spesso costretto ad applicare ricordi in bianco e nero, ma qui invece è tutto a colori. Roba nostra, non dei nostri nonni. Nel 2014 dei neonazisti hanno bruciato e massacrato 48 persone colpevoli di essere antifascisti di provenienza russa. Prima hanno incendiato il palazzo lanciando delle molotov, poi hanno forzato l’ingresso muniti di spranghe e catene; in contemporanea altri sparavano alle finestre da dove le persone cercavano di fuggire per non bruciare vive. 

Lo racconto e non ci credo, immagino sia lo stesso per chi legge: "sparare" vuol dire sparare con delle pistole, di giorno, in pubblica piazza. Non sto qui a raccontare dei contrasti ucraini, né analizzare come sia stato possibile far compiere un massacro del genere, ma posso raccontare quello che ho trovato qui: dolore e desolazione. Il palazzo è stato in parte ripulito, ma si presenta ancora con i vetri delle finestre rotti e in stato di semi abbandono. Il cancello è aperto per cui provo ad entrare, ma poco dopo vengo raggiunto da un signore che mi indica di allontanarmi. Provo a chiedergli cosa si fa oggi qui, ma scuote la testa e se ne va. Fuori dalla recinzione insistono invece un po' ovunque fiori, foto e frasi in ricordo dei morti di quel terribile 2 maggio 2014.

Mi siedo, il sole è forte e cade a picco senza conoscere ostacoli, come in tutte le piazze sovietiche. Mi guardo intorno e le persone, quelle poche che passano, camminano perse tra le loro cose: se non fossi qui, poggiato tra i ricordi strazianti di chi è rimasto, non noterei nulla di particolare, ma da qui invece torna fuori quel senso di contraddizione che da quando sono atterrato a Kiev mi avvolge e mi confonde. L'Ucraina perde ogni anno milioni di abitanti: il principale motivo del calo demografico è la fortissima emigrazione dovuta alla crisi economica. Il fenomeno riguarda soprattutto i lavoratori manuali, cosa che finisce col creare un dramma di ritorno tanto pericoloso quanto ovvio: dal momento in cui la richiesta è più alta per i mestieri non qualificati, chi ha studiato si trova con meno opportunità, e quindi paradossalmente guadagna meno. Chi si è dedicato a lavori di fatica riesce emigrando a guadagnare in pochi anni più di quanto un lavoratore medio ucraino guadagnerebbe in un'intera carriera. Questo spinge i giovani, di entrambi i generi, a rifiutare lo studio e qualsiasi prospettiva di emancipazione intellettuale.

Una delle cose più tristi che mi capita di notare è che spesso le masse siano più avanti, per intenti, dei partiti che dovrebbero essere le loro avanguardie organizzative. I dibattiti che riguardano il nostro tempo sono spesso vuoti, lo sono per l’astrazione e per la scarsissima profondità dell’analisi; le azioni che i governi si trovano ad intraprendere rispetto ai drammi che il nostro secolo genera mancano di visione e sono spesso completamente fuori contesto, rette da paradigmi novecenteschi, non in grado di dare risposte ad un mondo che accelera sempre più. Non è mio intento fare propaganda, tantomeno con un approccio semplicistico, ma nessuna economia potrà reggere se non troviamo il coraggio - anche come parti sociali - di toglierci dì dosso questo velo conservativo fatto di vecchi timori e porre al centro l'unica cosa che conta, ovvero l'uomo.