Un verdetto abbastanza clamoroso è arrivato alla fine del Festival di Venezia: ha vinto il Leone d’oro il documentario All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras (letteralmente: Tutta la bellezza e lo spargimento di sangue). Uno dei titoli meno accreditati alla vigilia, che non sembrava avere molte possibilità, si porta a casa la statuetta principale. Merito della presidente della giuria, Julianne Moore, che già era uscita in lacrime dalla proiezione del film e anche sul palco della Biennale è apparsa commossa. Il film infatti racconta una storia fortissima e praticamente sconosciuta: la grande battaglia contro la lobby degli oppiacei, condotta dalla fotografa, artista e attivista Nan Goldin. Il “nemico” è la potente famiglia Sackler, sulla carta mecenati d’arte, in realtà coloro che hanno immesso sul mercato l’OxyContin, un farmaco a base di oppio che crea dipendenza e che ha causato - secondo le stime - circa 400.000 morti di overdose, da persone comuni a grandi star come Prince e Heath Ledger. Nan Goldin con la sua associazione PAIN conduce una lunga mobilitazione, fatta anche di gesti clamorosi come i sit-in nei principali musei americani, proprio nelle sale dedicate ai Sackler. Alla fine la spunta, il doc di Laura Poitras registra la sua impresa.

Una lezione civile su un tema occulto, la dipendenza da farmaci e le aziende che la sfruttano, insieme alla dimostrazione che ogni tanto Davide batte ancora Golia. Un Leone inaspettato, in un concorso mediamente deludente dove pochi film hanno convinto davvero. Ma d’altronde la funzione del cinema è anche questa: illuminare, in senso etimologico, portare alla luce ciò che non conosciamo. La regista dal palco, ritirando il premio, ha fatto un appello per la liberazione immediata dei registi agli arresti in ogni parte del mondo: evidente il riferimento al collega iraniano Jafar Panahi.

I favoriti della vigilia ottengono gli altri premi. Il Leone d’argento lo vince il francese Saint Omer di Alice Diop, potente storia femminile su una migrante senegalese processata in Francia per l’omicidio del figlio di 15 mesi. L’Italia viene rappresentata da Luca Guadagnino, che vince la miglior regia per Bones and All, il suo film di genere sugli adolescenti cannibali con l’ormai star planetaria Thimotée Chalamet. Jafar Panahi, un maestro vero, sembrava avviato verso la vittoria: si aggiudica il premio speciale della giuria per No Bears, splendido racconto contro il regime iraniano. Proprio quel regime che lo ha messo agli arresti perché dissidente, come ha rimarcato il flash-mob a lui dedicato al Lido per chiederne la scarcerazione. Si chiude così l’edizione 79 della Mostra che, al di là dei tappeti rossi e lustrini, ha dato ampio spazio a temi sociali e politici, al nostro presente. È stato un occhio sull’oggi, una vetrina sul contemporaneo. 

È stato un festival delle donne. In un settore ancora a stragrande maggioranza maschile, molte registi, autrici e attrici sono passate dal Lido con risultati convincenti. A partire da Cate Blanchett con Tàr in concorso (migliore attrice), storia della prima direttrice d’orchestra donna (guarda caso di fantasia) che si fa spazio in un mondo a dominanza patriarcale. Una ragazza è stata protagonista di Princess di Roberto De Paolis, fuori concorso: una prostituta nigeriana che si muove sulle nostre strade, vista per la prima volta in focalizzazione interna, ovvero dallo sguardo della giovane finora inedito. Una regista donna molto applaudita in competizione è stata Susanna Nicchiarelli: il suo Chiara racconta la storia di Santa Chiara nella Assisi del 1200, quando la ragazza fece voto di povertà come San Francesco. Incontrando la resistenza non solo della società, ma anche del Vaticano: all’epoca una donna non poteva ottenere “il privilegio della povertà”. Una storia cristiana per parlare del patriarcato di ieri quindi anche di oggi. Il negativo della povertà è la fama, qui rappresentata Blonde di Andrew Dominik. Il film su Marilyn Monroe segue la sua stella cadente, traumatizzata e sfruttata dagli uomini, morta nel 1962 all’età di soli 36 anni.

È stato un festival dei diritti. A partire dal principale, o almeno quello che dovrebbe esserlo: il lavoro. La Syndicaliste di Jean-Paul Salomé è il film con protagonista una sindacalista interpretata da Isabelle Huppert. La diva francese si presta mirabilmente al ruolo per inscenare la vicenda reale di una rappresentante sindacale, in Francia, che lotta contro la chiusura di una grande azienda di nucleare col rischio di 500.000 licenziamenti. Una storia vera per chiarire una volta di più che il rapporto tra lavoratori e azienda è sempre dispari, spetta alla forza sindacale il compito di riequilibrarlo. Proprio la presenza di Huppert consentirà al film una maggiore diffusione.

È stato un festival del genere. Inteso come libertà di genere, fluidità, possibilità di essere se stessi senza muri o pregiudizi. Il signore delle formiche di Gianni Amelio ha lanciato un messaggio contro l’omofobia inscenando il processo-farsa ad Aldo Braibanti, accusato di plagio ma in realtà stigmatizzato perché omosessuale, non difeso (secondo Amelio, ma la polemica è aperta) neanche dagli ambienti della sinistra seppure fosse un ex partigiano e membro del PCI. In generale il cinema queer ha dominato: lo dimostra il vincitore della Settimana della critica, Eismayer di David Wagner, che racconta un generale dell’esercito gay rovesciando così lo storico archetipo dell’ufficiale machista. E il primo film sulle drag queen, ossia Three nights a week di Florent Gouelou, col protagonista che si innamora di una drag e viene risucchiato in un vortice di problemi e stereotipi. 

È stato un festival contro le discriminazioni. Una vetta è il grande film di Darren Aronofsy, The Whale, su un uomo gravemente obeso incarnato da Brendan Fraser. Un’opera importante, che forse per la prima volta mette in scena frontalmente questo disturbo, grazie alla scrittura e recitazione memorabile. La depressione è al centro di The Son di Florian Zeller, dove un padre di successo non riconosce la malattia del figlio adolescente: negazione che avrà conseguenze drammatiche. 

È stato, insomma, un festival di oggi. Pregi e difetti. Tra i primi quello più evidente: Venezia ha realizzato un’autentica ripartenza dopo il Covid, superando il periodo pandemico e tornando a un’ipotesi di normalità, con mascherine facoltative e posti in sala vicini. Il cinema torna così ad essere condivisione, stare insieme a sconosciuti in una sala buia in cerca della meraviglia. Nelle mancanze va certamente segnalata l’assenza di ricerca che riguarda alcune zone del mondo, come l’Oriente e l’Africa, i cui film vengono sostanzialmente esclusi dalla manifestazione. Sarebbe bello tornare a gettare uno sguardo lungo anche su questi luoghi lontani. Intanto però Venezia c’è, una presenza importante che può essere utile a riportare le persone nelle sale, in un momento storico così difficile per il cinema in cui è in gioco la sua stessa sopravvivenza.

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