Tullia, il personaggio al centro di questo romanzo d’esordio del quale vi proponiamo un capitolo, cresce insieme alla città di Roma che, colta nel suo continuo mutamento, è l’altra grande protagonista di Niente per lei. Le bombe piovono sul quartiere romano di San Lorenzo e Tullia, all’età di sei anni, vede crollare la propria casa. Inizia così la storia di una donna che, testimone in penombra del Novecento, ha cara la pelle e poco altro. Tullia affronta le difficili sfide che le capitano in sorte con l’incredibile determinazione di chi deve sopravvivere a ogni costo, senza però rinunciare a coltivare una ricca interiorità. Né la salute né la solitudine sembrano preoccuparla. Dopo un’infanzia trascorsa per strada da venditrice ambulante al fianco dei fratelli e la perdita dell’amatissimo padre, sopporta le durezze del lavoro operaio con ostinata energia, tra lotte sindacali e rivoluzioni culturali che la sfiorano appena. Laura Mancini (Roma, 1985) è copywriter e lavora nel mondo della comunicazione. È ricercatrice concettuale per una casa di moda italiana. Niente per lei è il suo primo romanzo.

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1962 Tor Sapienza, Stabilimento chimico 
Nandina era la più appariscente di tutte. Come si sarà acchittata oggi quella scocciata di Nandina, si chiedevano a mezza bocca le colleghe pimpanti e ridanciane versandosi il primo caffè del turno. Io me ne stavo da parte senza fiatare mentre loro, non viste, trascorrevano buona parte della pausa a considerare con disprezzo, fingendo di non invidiarla, i suoi capelli tinti di biondo e i suoi occhi nero carbone truccati alla Cleopatra. A modo suo, lei ci teneva. Quella marmaglia di oche, interessata solo a spettegolare, non notava tutte le sue finezze. Cambiava colore di smalto ogni due o tre giorni, dal rosa all’argento, dall’argento all’avorio, e con l’ombretto sempre coordinato. Non le mancavano mai addosso un fermaglio di stoffa e qualche gioiello di poco conto, vezzi insoliti per un’operaia esposta dalla mattina alla sera ai vapori delle macchine e al ritmo nervoso delle leve d’acciaio. Alternava due borse, una graziosa da signorina che va a spasso per il corso il sabato pomeriggio, l’altra più consunta e anonima, per la sporta del pranzo e il cambio della biancheria. Attorno alla cinghia della prima – di pellaccia, ma ben tenuta, e più lucida ogni lunedì, forse dopo la strigliata della domenica – si era sbizzarrita ad annodare un foulard colorato, di quelli che altre portavano più banalmente intorno allo chignon quando si facevano belle, e ogni settimana rotava anche quello, nelle due o tre varianti che possedeva, insieme al resto dell’armamentario. Non avrei mai adottato per me tante smorfie da fanatica, ma a differenza delle altre arpie le rispettavo, erano il segno di chi resta fedele a se stessa e non si giudica inferiore a una ragazza dei quartieri bene solo perché invece di studiare all’università lavora in fabbrica o fa la vita.

Lungo il tratto di campagna tra la fermata dell’autobus e il lastricato dello stabilimento, anche solo guardandola salire la scalinata di cemento era chiaro che lei intendesse apparire. Annunciata dal profumo economico del mercato, ogni mattina gustava il corridoio spontaneo che le si apriva davanti ai piedi. Gli operai di passaggio diretti al birrificio sostavano con qualche scusa in mezzo alla ressa delle sue anonime colleghe e si voltavano a godersi il cameo, un buongiorno da cinema prima della tiritera tutta uguale. La coda alta le ballonzolava a ritmo contro il cielo blu della campagna cittadina. Gli occhi, che teneva discosti da chiunque le intralciasse il passo, vagavano irrequieti per il cortile. Dietro di lei i campi e i capannoni facevano da sfondo a un ingresso glorioso, da gladiatrice. Di fronte a quel panorama piatto, usurpato da un’operaia che camminava sicura senza rivali, i nasi storti erano molti, ma ancora più numerosi erano gli sguardi bassi. Non certo il mio. Invisibile come sempre, catturavo istantanee della nuova situazione, l’ennesima scelta su due piedi per non morire di fame.

Il giorno in cui feci finalmente la sua conoscenza, Nandina teneva una mano sulla vita sottile e dimenava l’altra per aria nell’intento di sottolineare a dovere quello che stava urlando a gola spiegata: ahò, ma tocca sempre a me! No no no, mimavano le sue anche, no no no, rispondeva la sua nuca indemoniata. Eravamo tutte nel locale principale, un chiasso assordante di stantuffi e nastri trasportatori la costringeva a una piazzata di volume superiore a quello che avrebbe scelto in condizioni di calma piatta. Il motivo di tanto sbraitare era il turno all’imbottigliatrice, a detta di Nandina un immeritato dispetto della caporeparto. La prospettiva di un intero mercoledì alla macchina più rognosa di tutte, e proprio nel mezzo di una settimana di fatiche, la snervava parecchio, ed era chiaro che non avrebbe tenuto lo scontento per sé. Ogni giorno questa fa storie, commentavano le altre a voce sufficientemente bassa perché lei non le sentisse. E nun se leva mai dai cojoni, azzardavano le più spietate. Spiai la caporeparto, camminava esaminando per finta alcuni campioni, le piaceva comandare ma dal risolvere le beghe si guardava bene, come tutti quelli che guadagnavano un’unghia di potere.

Io non mi ero lasciata impressionare dalla scenetta. Ne avevo conosciute di donne umorali e individualiste, a San Lorenzo, a piazza Risorgimento e un po’ in tutta Roma, durante le mie sfacchinate. Scontente e lunatiche, trascorrevano la giornata in una continua manifestazione di svogliatezza, fumando come turche. Spaccavano il mondo in alleati e avversari, azzuffandosi tra di loro alla prima occasione. Si sottraevano ai doveri appena potevano e non erano solidali con gli altri se non quando ne condividevano i guai. Disprezzavo quel genere di donna, e quando ne incontravo una giravo bene alla larga.

Nun pò esse che tocca di nuovo a me, qualcuna ha barato sui turni, a me nun me fate fessa facile, a belle! Non sollevai nemmeno lo sguardo, l’accusa non poteva essere diretta a me che, trovandomi nello stabilimento da meno di quindici giorni, avevo il divieto assoluto di avvicinarmi alle macchine più complesse da manovrare, l’imbottigliatrice era tra queste. Fate le vaghe eh, signore? Brave, complimenti! Ve possino ammazzavve a voi e a chi v’ha messo al mondo. Questa poi!, dicevano i volti sconcertati tutt’intorno. Sbigottite, le altre operaie si guardavano a vicenda con tanto d’occhi sperando che qualcuna si decidesse a reagire a nome di tutte, ma nessuna ebbe il coraggio di farlo se non con patetiche smorfie che voleva no significare: lasciamola perdere. Come se quello d’ignorarla fosse un segno di forza. Rosa avrebbe tirato giù la fabbrica.

Meno la calcoliamo prima la fa finita con la recita, aveva confermato una ragazza alta dalle retrovie per esonerare tutte dal primo passo. Nandina però non si rassegnava, sapeva di essere temuta e proprio per questo motivo continuava a dimenarsi intorno alla postazione come una belva recalcitrante all’idea della gabbia, rapita nella foga del proprio spettacolo. Morivo dalla voglia di scalzarla con una spallata e prendere a imboccare io stessa la macchina. Se solo una di quelle avesse avuto voglia di spiegarmi come fare, avrei convinto il dottor Arduni a spostarmi dalle mansioni base. Ero capace, o lo sarei diventata con poco. Corri come un diavolo, mi diceva mio padre scompigliandomi i capelli quando lo seguivo per imparare a vendere. Eccolo, il periodo più bello della mia vita, ancora così vivo nei miei ricordi, come una scudisciata a freddo. Le foglie ai bordi della strada, il caffè al bar dopo pranzo, la canna della bicicletta di Giuseppe con me sopra a ballare sui sanpietrini. Ormai nessuno si sarebbe più degnato di insegnarmi niente: le colleghe mi scansavano come un’appestata per la mia piccola Marzia di padre ignoto, le gran dame moraliste. Dopo il lavoro le avrei portato un biscotto al miele del forno, per farla contenta.

Daje, me ce metto io se mi spieghi come se fa. Da dove mi era venuto il coraggio? Anvedi, è arrivata la bravona! Sta qui da du’ settimane e ce se vòle mette’ lei! Embè, che sarà mai, basta prendere la mano. Nandina fece una pausa drammatica e mi girò intorno, come se dovesse valutare da quale punto fosse più spassoso saltarmi addosso. C’ho impiegato sei mesi a imparà a usà ’sta macchina, ’a cosa!

Le altre operaie erano stanche di sentirla sbraitare. Mi squadrarono con aria di sufficienza, indecise su chi delle due fosse più meritevole di antipatia, non mi erano grate per quello che stavo facendo, con la mia aria grigia e sbiadita non dovevo averle conquistate neanche un po’. Non che m’interessasse ingraziarmele, comunque.

Sandra, la caporeparto, spezzò il confronto perché voleva che Nandina smettesse di angosciarle tutte: e famocela provà. Poi, diretta a me, te faccio vede’ il movimento una volta e basta perché nun posso perde’ tempo, poi continui tu. Se entro il quinto tentativo ce riesci, il turno de ’sta paranoica spetta a te. Altrimenti fatte coraggio, Nandì. 

La macchina inghiottiva veloce la bottiglia colmandola di liquido all’istante, era dura afferrarla nel momento esatto in cui il piatto rotante passava rapido e stracolmo di boccette da sigillare. Doveva avvenire tutto tanto velocemente da garantire che il ciclo d’imbottigliamento non perdesse pezzi. Una pretesa acrobatica concepita con crudeltà da chi aveva programmato quella trappola. 

La prima bottiglia mi cadde e il liquido si versò tutto. Mi sforzai di ignorare lo schiocco di labbra alle mie spalle e mantenni la concentrazione sul piatto. La seconda mi andò a segno ma troppo sbilenca, incerta tra il versamento e la salvaguardia del medicinale che avrebbe dovuto custodire. Me ce metto io!, mi fece il verso Nandina, riscuotendo l’ilarità selvaggia delle più anziane. Sandra silenziò gli schiamazzi con un monito gutturale da barbara, giusto in tempo perché le operaie potessero ammirare il terzo e impeccabile imbottigliamento che misi a segno senza il minimo impaccio, vincendo il turno più odioso di tutti con un sorriso segreto che dedicai a me stessa soltanto.